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Cattivi Scienziati

Entro fine secolo 2 miliardi di persone vivranno in luoghi con temperature oltre la soglia del "calore pericoloso”

Enrico Bucci

Il limite è fissato a 29° medi annui. E, secondo un nuovo studio del Global Systems Institute dell'Universtià inglese di Exeter, i paesi in cui si troveranno il maggior numero di esseri umani esposti a tale condizione saranno India (600 milioni), Nigeria (300 milioni) e Indonesia (100 milioni) 

Un gruppo internazionale di ricercatori su iniziativa del Global Systems Institute dell'Università inglese di Exeter ha studiato, sulla base di una popolazione mondiale stimata in 9,5 miliardi di individui nel 2100, le conseguenze di un aumento della temperatura di 2,7°C entro la fine del secolo (cioè nel periodo compreso fra il 2080 e il 2100), pubblicando i propri risultati sulla rivista Nature Sustainability. Questo aumento medio di temperatura corrisponde a quanto si dovrebbe ottenere a livello globale se ci attenessimo alle politiche attualmente attuate nella lotta al riscaldamento globale. Ebbene, i ricercatori concludono che, in queste condizioni, il 22 per cento della popolazione mondiale, ovvero oltre 2 miliardi di persone, si troveranno a vivere in luoghi ove si raggiungeranno temperature medie al di sopra della soglia del "calore pericoloso”, fissata a 29° medi annui. I paesi in cui si troveranno il maggior numero di esseri umani esposti a tale condizione saranno India (600 milioni), Nigeria (300 milioni) e Indonesia (100 milioni). In uno scenario ancora più pessimistico, a +3,6°C o addirittura +4,4°C, metà della popolazione mondiale sarebbe a rischio.

 

Ora, se il riscaldamento medio potesse essere limitato a +1,5°, ovvero se si raggiungesse l’obiettivo fissato a Parigi nel 2015, tali effetti potrebbero essere impediti; ma siccome è ormai convinzione piuttosto diffusa nella comunità scientifica che tale obiettivo sia irraggiungibile, è bene fare una considerazione ulteriore, seguendo il ragionamento degli autori dello studio. In breve, per ogni decimo di grado di innalzamento termico medio risparmiato al nostro pianeta, si salveranno circa 140 milioni di persone; così, limitando ad esempio il riscaldamento globale a 2°C entro la fine del secolo (l'obiettivo meno ambizioso degli accordi di Parigi), si salverebbero 980 milioni di persone rispetto ai 2,7°C dello studio.

Ora, vorrei fare alcune considerazioni con il lettore. Innanzitutto, è ovvio che, trattandosi di previsioni sulle condizioni future, non possiamo che utilizzare modelli matematici per provare a definire cosa potrebbe accadere, sapendo che questi possono fallire con una probabilità ben definita; tuttavia, qui non conta sapere con precisione quando raggiungeremo le temperature indicate, ma è invece importante considerare che cosa succederebbe quando a quel punto si dovesse arrivare. Questa parte del modello degli autori è la più interessante, perché, al di là delle stime quantitative, permette di fare alcune considerazioni di rilievo.

Innanzitutto, come potremmo aspettarci, proprio le popolazioni che sono oggi meno responsabili in termini di emissioni pro-capite, saranno quelle mediamente esposte alle conseguenze peggiori in termini di innalzamento delle temperature, vivendo in zone del mondo che sono fisicamente più esposte in caso di un aumento globale. Questo semplice dato rivela una profonda, ulteriore ingiustizia, che si accompagna a quelle da secoli documentate nel nostro mondo a sfruttamento e ricchezze asimmetriche. Più precisamente, come sottolineano gli autori, se i conti che essi han fatto sono giusti, le emissioni nel corso della vita di 3,5 cittadini globali medi di oggi, o di solo 1,2 cittadini statunitensi, espongono una persona futura a un calore pericoloso; ma questa futura persona esposta al calore vivrà in luoghi in cui le emissioni oggi sono circa la metà della media globale. Anche se i conti non dovessero rivelarsi così accurati, la tendenza complessiva rimane inalterata, qualunque sia il modello preso in considerazione: l’iniquità climatica, cioè, è un dato di fatto, che non varia se cambia il valore dei parametri di emissione e il loro effetto sul clima, perché dipende solo dalla distribuzione delle emissioni e della popolazione globale.

 

In secondo luogo, è opportuno notare come il danno considerato dagli autori, ovvero solo quello direttamente legato al calore estremo, non considera altre conseguenze nefaste della variazione climatica: eventi metereologici a energia maggiore e più frequenti e innalzamento dei mari ne sono un esempio, considerato in altri studi. Questa variegato insieme di altri effetti negativi sarà più equamente distribuito, ma le risorse per difendersi saranno ancora una volta maggiormente concentrate nelle mani dei maggiori inquinatori (perché consumo ed emissioni sono oggi largamente correlati alla forza economica e al tasso di sviluppo).

Infine, sebbene, egoisticamente, possiamo sperare di riuscire a meglio attrezzarci per fronteggiare il cambiamento climatico in paesi come il nostro, vi è una considerazione generale che suggerisce una maggiore lungimiranza nell’attuare politiche globali di prevenzione delle emissioni, e non solo di protezione dagli estremi climatici: le migrazioni climatiche, già oggi iniziate, potranno arrivare a causare lo spostamento di centinaia di milioni di persone da zone ove la sopravvivenza diventerà quasi impossibile, con le conseguenze in termini di tensioni internazionali e interne che si possono facilmente intuire, le quali non saranno altro che il prodotto dell’iniquità climatica cui si accennava. Taluni potranno anche rifugiarsi nel solito mondo delle favole, raccontandosi che esistono i catastrofisti cattivi e che i modelli non funzionano, proprio come è accaduto per il Covid-19; altri potranno poi contare sul fatto di essere morti prima che arrivino i guai (anche se figli e nipoti saranno ben vivi). Io, onestamente, preferisco dar retta come sempre agli scienziati, ed agire di conseguenza: dove agire, in questo momento, significa innanzitutto per quanto mi riguarda studiare le soluzioni che la ricerca indica, per comunicarle e formare la pubblica opinione; e in secondo luogo, agire individualmente in maniera il più possibile responsabile, magari seguendo le indicazioni delle Nazioni Unite e scaricando l’apposita app per misurare l’impatto collettivo di chiunque faccia lo stesso con me.