il panico morale per le tecnologie
Il via libera alle Tea non cancella i danni della narrazione terroristica contro gli Ogm
L’Italia apre alla sperimentazione dell’editing genomico in ambito agrario, fingendo che le nuove Tea “buone” non c’entrino con i vecchi Ogm “cattivi”. Una scappatoia ipocrita per non fare i conti con gli errori del passato
Politiche agroalimentari basate sull’ideologia sono un lusso che nemmeno nella nostra sazia e ricca Europa possiamo più permetterci. Gli sconvolgimenti climatici e geopolitici degli ultimi anni stanno rendendo palese, anche ai più riluttanti, la necessità di utilizzare l’innovazione e tutti i suoi mezzi scientifici e tecnologici per poter continuare a garantire la sostenibilità (sociale, ambientale ed economica), la libertà e la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari e non solo.
Sulla base di questa consapevolezza, sul fronte delle biotecnologie vegetali qualcosa sembra muoversi per liberare la ricerca, dopo decenni di blocco politico-parlamentare. È notizia di questa settimana che, tra gli emendamenti votati in Commissione in Senato al decreto legge "Siccità" (approvato mercoledì 31 maggio) vi siano anche delle "misure urgenti" per favorire l'editing genomico in ambito agrario, a sostegno di produzioni vegetali "in grado di rispondere in maniera adeguata a scarsità idrica e in presenza di stress ambientali e biotici di particolare intensità”. In particolare, l'emendamento a prima firma De Carlo (Fdi), sottoscritto anche da senatori della Lega, Italia viva e Movimento 5 Stelle, ed analogo a un altro a firma Paroli (Fi), consente l'emissione controllata nell'ambiente, a scopi scientifici e sperimentali, di organismi prodotti mediante tecniche genomiche quali la cisgenesi e la mutagenesi sito-diretta. Essendo stato approvato in fase di conversione di un decreto in scadenza il 13 giugno, dovrebbe diventare legge in tempi pressoché certi.
L'iniziativa si inserisce in un percorso che, in questa legislatura, è iniziato in commissione Agricoltura al Senato con un disegno di legge dello stesso De Carlo, Presidente della Commissione. La proposta, pressoché identica a quella presentata sul finire della scorsa legislatura dal Senatore Filippo Gallinella (5Stelle), allora presidente della commissione Agricoltura della Camera, è volta a liberare la sperimentazione in campo delle nuove biotecnologie vegetali. Anche il vicepresidente Giorgio Bergesio, della Lega, ha annunciato la presentazione di un ddl con le stesse finalità, che la Commissione ha deciso di trattare congiuntamente con il primo.
Ci si può dire contenti, dunque, del fatto che vent’anni di affossamento della ricerca scientifica italiana sul miglioramento genetico delle piante potrebbero essere prossimi a terminare? Si può gioire nel pensare che tanti scienziati, giovani e meno giovani, potranno raccogliere – letteralmente - i frutti del loro impegno, anziché vederli - altrettanto letteralmente - bruciare, come accadde al professor Eddo Rugini dell’Università della Tuscia, che nel 2012 assistette impotente, per ordine delle istituzioni, al rogo del suo frutteto sperimentale geneticamente migliorato?
“Eppur si muove”?
È naturale che uno studioso italiano provi soddisfazione e sollievo nel veder riaprire le porte a un ambito di ricerca prima bloccato. Eppure, questa soddisfazione non può essere piena, sapendo che il dibattito sulle biotecnologie vegetali rimane parziale e mutilato. Come uno stanco e disilluso Galileo Galilei, verrebbe da commentare “eppur si muove”, nel constatare che questa importante ma tardiva considerazione politica della scienza nel nostro Paese deve fare i conti con una sorta di abiura. Dalle dichiarazioni che si leggono e si ascoltano, infatti, appare impossibile parlare delle nuove tecnologie di miglioramento genetico ora finalmente in discussione senza “abiurare” un passato di ricerca sugli Ogm del quale, in realtà, dal punto di vista scientifico, non ci sarebbe nulla da rinnegare o da temere. Nessun Ogm autorizzato per la commercializzazione, in decenni di utilizzo per la nutrizione umana e animale, ha infatti mai causato danni sanitari o ambientali nel mondo.
È l’interesse per la libertà di ricerca ad avermi spinta, da anni, a studiare e ad intervenire in questa materia, vivendo analoghe ipocrisie che condizionano la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali. Anche in quel caso ci sono stati ‘cantori’ di staminali “buone” vs staminali “cattive”, che – mascherando con argomenti pseudoscientifici l’aderenza a un veto ideologico - dicevano che le embrionali sono vecchie, superate, inutili, ormai si è "oltre", ci sono le cellule umane pluripotenti indotte e quindi le embrionali non servono più. Era il 2004. Vent‘anni dopo, le staminali embrionali umane rimangono indispensabili per molti studi, e noi continuiamo a usarle. Quando non ci si vuole rassegnare ad accettare l’evidenza scientifica, si afferma tipicamente di essere “oltre”.
È vero: nel genoma delle piante Ogm viene inserito un pezzettino di DNA “protettivo” esterno, proveniente da un’altra pianta o specie (ad esempio un batterio) in grado di renderla “resistente”. Invece, altre più recenti biotecnologie vegetali non aggiungono nulla di esterno, ma agiscono sul DNA della pianta modificando chirurgicamente “solo” una o due lettere del suo genoma interno (composto da miliardi di lettere) in corrispondenza di tratti che esprimono la caratteristica che si vuole rafforzare o eliminare. Si parla in questo caso di “editing” genomico (come quando, in un testo scritto al computer, si evidenzia una parola e se ne cambia soltanto una lettera) o anche di TEA, Tecniche di evoluzione assistita, messe a punto tramite la tecnologia Crispr/CAS9 che ha fatto conquistare il Nobel alle sue scopritrici. Interventi spesso impossibili da distinguere rispetto ad analoghe variazioni di una o due lettere che avvengono spontaneamente in natura, o dopo incroci e innesti: il vantaggio straordinario, quando sono introdotte in laboratorio, è quello di poterle tracciare, controllare e verificare in ogni passaggio (in formato “revisione”, si potrebbe dire, riprendendo il paragone di prima).
Tuttavia, le nuove biotecnologie non esisterebbero senza tutta la ricerca sugli Ogm che c’è stata in precedenza, come non esisterebbe il Gps di oggi senza le missioni spaziali degli anni ’60, come non sarebbe esistita la Ferrari senza la Ford modello T, come non esisterebbe il Frecciarossa senza quelle prime locomotive a vapore che tanta diffidenza scatenavano, in quanto si credeva che viaggiare a velocità così elevate (circa 80 chilometri all’ora) potesse provocare degli shock e danneggiare la salute. Anzi, a differenza dell’invenzione di Stephenson, molti Ogm sono tuttora utilizzati e coltivati con successo in tutto il mondo, permettendo di risparmiare migliaia di tonnellate di agrofarmaci, milioni di litri di carburante per i macchinari agricoli, milioni di tonnellate di emissioni di CO2 (“Environmental impacts of genetically modified (GM) crop use 1996-2018: impacts on pesticide use and carbon emissions”, Brookes e Barfoot, GM Crops & Food, 2020). Ogm che continuiamo ad avversare ma dai quali dipendiamo, che ogni giorno importiamo, con cui alimentiamo la nostra zootecnia per poi ottenere alcuni tra i più richiesti prodotti alimentari al mondo, prosciutti e formaggi di cui siamo giustamente orgogliosi.
Vietare gli OGM fa male alla salute (mentale): la dissonanza cognitiva italiana
Gli Ogm autorizzati (cioè certificati come non dannosi per uomo e ambiente) che da decenni vietiamo ai nostri imprenditori di coltivare sono gli stessi che facciamo produrre per noi dagli imprenditori di altre nazioni per poi consumarli indirettamente sulle nostre tavole (senza alcun danno alla salute), dopo che navi provenienti dall’estero ne scaricano ogni giorno qualche migliaio di tonnellate nei nostri porti, al costo di qualche miliardo l’anno perso dagli imprenditori italiani e guadagnato da quelli di altri Paesi. Non riconoscerlo causa una dissonanza cognitiva collettiva dannosa alla società italiana sotto ogni aspetto.
Gli imprenditori stranieri, infatti, coltivano - e commerciano, anche in Italia - quel mais geneticamente migliorato (contenente il gene “Bt” che protegge il mais dall’attacco della piralide, riducendo fortemente l’uso di antiparassitari) che agli imprenditori italiani è vietato coltivare e vendere, ma è permesso acquistare dall’estero per farne mangimi, farine e quant’altro. Gli imprenditori stranieri coltivano - e commerciano, anche in Italia - quel cotone geneticamente modificato che ha meno bisogno di essere irrorato di pesticidi per sopravvivere. Tutte le prove disponibili confermano che le piante citate (e altre) non sono diverse, quanto a effetti su salute e ambiente, rispetto alle loro omologhe non geneticamente modificate. Con il vantaggio che le piante Ogm possono avere caratteristiche migliori, in quanto spesso studiate per ridurre, rispetto alle varietà non-Ogm, l’uso degli agrofarmaci, i cui costi gravano, oltre che sull’ambiente, anche sulle tasche dei coltivatori e, di conseguenza, dei consumatori finali. Nel racconto mediatico dello spreco alimentare e della sostenibilità, non si tiene conto a sufficienza di quante risorse si sprechino (e di quanto si impatti inutilmente sull’ambiente) nel coltivare un campo e vedere poi il raccolto andare perduto a causa di fitopatie o attacchi di parassiti che potrebbero essere prevenuti, grazie a tecnologie già oggi disponibili e il cui uso è consolidato nel mondo, ma vietate per motivi ideologici. Per alcune di queste, ad esempio il mais, non sarebbe necessaria la nuova tecnologia dell’editing. La "pianta ideale", ad oggi, c’è già da 30 anni. Se i nostri imprenditori potessero essere messi in condizione di competere alla pari con i loro omologhi di altri Paesi, magari grazie a una “moratoria” temporanea al divieto di coltivazione di mais Ogm, l’intera economia italiana potrebbe averne beneficio, soprattutto in un periodo di potenziale insicurezza alimentare.
Eppure, il terrore instillato a suo tempo nei cittadini italiani verso gli Ogm, a opera di “cattivi maestri” che hanno diffuso bufale antiscientifiche, è ancora troppo forte per poterli anche solo nominare senza causare reazioni scomposte. In altre parole, a livello di coscienza collettiva degli errori commessi, in Italia non si muove proprio nulla.
Il danno cognitivo fatto da oltre vent’anni di narrazione terroristica antiscientifica, diffusa e alimentata nella società anche da operatori economici e mediatici, appare difficilmente riparabile. Ricordiamo tutti la campagna pubblicitaria della Coop su pericoli inesistenti come la “fragola-pesce”, o i casi di “morti sospette” legate agli Ogm, completamente inventati, citati da Beppe Grillo nei suoi show dei primi anni Duemila. Il marketing della paura, nel breve termine, è redditizio per chi lo pratica. Pazienza se, a lungo andare, svantaggia gli imprenditori italiani che credono e vorrebbero investire nell’innovazione. Pazienza se, per molti studiosi, la diaspora dall’Italia non è stata e non è una scelta libera ma un percorso obbligato, volendo continuare a progredire nelle ricerche sul miglioramento genetico delle colture. Pazienza per i cittadini- consumatori, ai quali non è stato permesso di capire.
Nel recente passato, tutte le forze politiche (con pochissime eccezioni) hanno sposato e promosso, anche a livello legislativo, una narrazione dell’agricoltura italiana slegata dai dati di realtà. Ci si illudeva, in uno scenario di pace e abbondanza, che la nostra bilancia commerciale agroalimentare potesse restare in attivo semplicemente assecondando le paure instillate nei consumatori di tutta Europa e proponendo l’agricoltura del nostro Paese come in grado di esistere e competere “senza tutto”: senza pesticidi (o residui), senza Ogm, senza glifosate. Ricordo, tra i moltissimi altri, l'ex ministro dell'Agricoltura e oggi vicedirettore FAO Maurizio Martina, che nella campagna elettorale del 2018 prometteva di “azzerare l'uso dei pesticidi entro il 2025″. Naturalmente una “mission impossible” a meno di voler riportare alla fame un Paese che dovrebbe ricordarsi bene cosa siano la carestia, la povertà, la malnutrizione, avendole vissute almeno fino al secondo dopoguerra e avendole sconfitte soprattutto grazie all’innovazione.
In più occasioni, nella discussione pubblica e politica sulle possibili soluzioni della crisi alimentare che attanaglia il mondo, si è finito con il mettere sullo stesso piano i dati riportati da studiosi esperti della materia e le narrazioni secondo cui il pianeta si può sfamare coltivando i campi con metodi antiscientifici, fino all’esoterismo del cornoletame biodinamico. Molte delle scelte compiute dando ascolto a queste narrazioni, di fatto, hanno privato gli imprenditori agricoli e gli studiosi degli strumenti minimi per salvaguardare la nostra produzione agricola e le tipicità, danneggiando l’economia, la ricerca, la libertà d’impresa e rischiando di causare ancora più danni in futuro e renderci ancora più dipendenti dall’estero.
Come uscire da vent’anni di blocco della ricerca scientifica
Nella galleria degli orrori degli effetti di questa chiusura sulla ricerca pubblica del Paese, ancora una volta, voglio ricordare (tra le tante) le vicende di tre colleghi. Penso al professor Silviero Sansavini, le cui mele cisgeniche, resistenti alla ticchiolatura (un fungo responsabile della più grave malattia di questo frutto) nel 2002 non poterono essere sperimentate in campo aperto, con l’unico esito di regalare a Olanda e Svizzera lo sviluppo di questa linea di ricerca. O al già citato, e meritoriamente ricordato da questo giornale, professor Eddo Rugini, che nel 2012 è stato obbligato a mettere, materialmente, al rogo trent’anni di conoscenza: bruciate le sue piante di kiwi, di ciliegio, ma anche di ulivi geneticamente modificati per resistere a parassiti, al freddo o alla siccità. Mai nessun pesticida era entrato in quel campo sperimentale dell’Università della Tuscia prima della distruzione, grazie alle modifiche genetiche che avevano migliorato la salute delle piante in studio. Quelle innovazioni sono state regalate ad altri Paesi, dove gli agricoltori hanno potuto coltivarle e vedere i propri raccolti prosperare, a differenza dei loro colleghi italiani che hanno visto le proprie piante da frutto diminuire la produzione fino all’80% a causa della maculatura del pero o del virus Sharka. Infine voglio ricordare il professor Francesco Sala (genetista nella mia Università, la Statale di Milano), scomparso troppo presto, e i suoi pioppi geneticamente modificati che non ha mai potuto sperimentare in Italia: oggi sono piantati in Cina, su centinaia di migliaia di ettari, e arricchiscono gli imprenditori cinesi anziché quelli italiani.
Per comprendere ancora meglio l'assurdità delle politiche condotte fino ad oggi, invito i lettori a consultare la tabella riportata in questa pagina, aggiornata all’inizio del 2020. Olivo, vite, pomodoro, frumento, fragola, kiwi sono solo alcune delle varietà sulle quali avremmo potuto lavorare per renderle più produttive, meno bisognose d'acqua, resistenti ad agenti atmosferici, funghi e altri patogeni vegetali. Nel frattempo, altri progetti sono stati portati avanti, ad esempio sulla vite, con tecnologie di editing genetico, o sulle piante da frutto, con l’RNAi. Ad oggi tutto questo è al palo, bloccato; con la nuova legge sbloccheremmo la ricerca solo sulle piante dove non c'è scritto "Ogm". Ragioni scientifiche per operare questo discrimine tra piante Ogm e piante ottenute con editing genetico? Nessuna. Ragioni politiche e giuridiche? Una sola: l'incapacità di uscire dalla narrazione terroristica propugnata da decenni sugli Ogm, precipitata in un’impalcatura giuridica europea a maglie strette che considera - come confermato dalla Corte di giustizia dell'Unione – ogni modifica genetica allo stesso modo, lasciando agli Stati membri l’onere di decidere se le vogliono tutte oppure nessuna.
Uno stallo superabile solo con una "magia normativa". Con il ddl De Carlo, ex Gallinella, in parte trasfuso in un emendamento al dl Siccità, oggi il Parlamento si propone di fare quel che, tra realtà e leggenda, si racconta accadesse al venerdì in alcuni conventi medievali con la formula "ego te baptizo piscem": la carne veniva ribattezzata pesce, per poter aggirare la regola di mangiare di magro. La scelta, culturalmente ipocrita, di cambiare il nome alle cose pur di non eliminare un divieto è l'unica che oggi vanti un sostegno trasversale e maggioritario a livello parlamentare. Questo è lo scotto da pagare affinché la ricerca biotecnologica in ambito agrario possa trovare nuova linfa nel nostro Paese che, insieme ad altri, mena il tristo (e finto) vanto di essere "Ogm free". Ma dire che gli Ogm oggi non servano più poiché si sono sviluppate altre biotecnologie, dire che “ormai siamo oltre”, è una forzatura: continueremo a importare mais, cotone, soia Ogm dall’estero a migliaia di tonnellate e a lasciarli sperimentare alle università e agli imprenditori stranieri, pur di non ammettere l’errore originario compiuto nel vietarne non solo la coltivazione a scopi commerciali, ma anche lo studio in campo aperto.
Tabella, aggiornata al gennaio 2020, che elenca molte varietà vegetali geneticamente modificate con diverse tecniche grazie a ricercatori delle nostre università pubbliche, attualmente pronte per la sperimentazione, ma che finora non si sono potute sperimentare in campo per la mancanza di protocolli di autorizzazione. A questi progetti, negli ultimi tre anni, se ne sono aggiunti altri, sull’editing genetico della vite, sul riso e sulle piante da frutto
Risalire, in corsa, sul treno dell’innovazione: il coraggio necessario
In ambito scientifico, non mi è mai piaciuto utilizzare l’espressione “un treno perso” rispetto a ricerche, metodi, tecnologie su cui il nostro Paese ha impedito la sperimentazione per motivi ideologici. Innumerevoli esempi storici, infatti, ci ricordano che la scienza non si ferma. Per un Paese che vieta la ricerca, ne esistono decine che invece la permettono e la incoraggiano. Ma oggi rischiamo di assomigliare a quegli abitanti del Far West americano che, vedendo avanzare le prime locomotive a vapore, si chiudevano all’innovazione, terrorizzati che andare a una velocità massima di 80 chilometri orari potesse essere fatale, soprattutto per le donne, causando un’improvvisa fuoriuscita dell’utero dal corpo. Qualche centinaio di anni dopo, la questione Ogm dimostra che il “panico morale” (termine usato da alcuni antropologi come Genevieve Bell) che una società vive quando tecnologie particolarmente rilevanti si mostrano al mondo per la prima volta rimane difficile da contrastare se non ci si arma di metodo, di prove, di studio e di ragionamenti che aiutino a mettere in fuga le paure e il rischio del rifiuto generalizzato del nuovo da parte della società.
A causare i problemi più grandi alla società in termini di “treni persi”, più che un divieto in sé, è l’ideologia di paura e chiusura che lo costruisce e lo accompagna. E, in questo senso, la questione Ogm rappresenta un fallimento da tutti i punti di vista: normativo, politico, economico, mediatico e culturale.
Accontentiamoci quindi, per ora, di salutare l'apertura parlamentare alle nuove tecnologie sull’editing genomico per ciò che è: un’utile scappatoia per riaccendere la conoscenza in un settore nel quale, prima di un blocco scientificamente immotivato, i ricercatori italiani erano tanti, all’avanguardia e tra i migliori. Per quanto riguarda il futuro, sarebbe un cambio di paradigma enorme, da parte di un legislatore consapevole, evitare chiusure “a priori” dettate da un malinteso principio di precauzione e permettere invece, fin dall’inizio, lo studio e la sperimentazione delle nuove tecnologie che il mondo scientifico continuerà a mettere “nel piatto”. Come la carne coltivata.
Elena Cattaneo è docente alla Statale di Milano e Senatrice a vita
cattivi scienziati
La débâcle della biodinamica in vigna
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