Nel regno della matematica
Così Princeton ha raggiunto il suo primato grazie ai soldi delle fondazioni
La storia dello sviluppo della celebre università americana ci mostra come si finanzia la ricerca. Da modesto ambiente accademico-intellettuale a "centro dell'universo" matematico
Nella foto del 1951 David Ben Gurion, padre fondatore dello stato di Israele e primo ministro del suo primo governo, e Albert Einstein, il fisico tedesco di genitori ebrei più famoso del mondo, conversano amabilmente, seduti su due sedie di legno da giardino davanti alla villetta di quest’ultimo, a Princeton. Nel romanzo del 2006 “Einstein e la formula di Dio” lo scrittore portoghese, José Rodrigues dos Santos, immagina che il primo ministro israeliano si sia recato da Einstein non già in visita di cortesia bensì, vista la situazione tumultuosa del Medio Oriente a seguito della creazione dello stato ebraico, per chiedergli della fattibilità di un progetto di bombe atomiche chiamiamole pure leggere e per eventualmente aggregare il grande scienziato a questo progetto teso a garantire l’incolumità dell’appena nato ma già minacciato stato di Israele.
In verità nella foto, a buona ragione iconica, i due uomini pressoché coetanei e allora settantenni, i capelli bianchi gonfiati da una sottile brezza, hanno un’aria rilassata e sorridente, nient’affatto da progetti di bombe atomiche, leggere o pesanti, che aleggiano tra di loro. Piuttosto, c’è da rimarcare il luogo, Princeton, una piccola cittadina di trentamila abitanti nel New Jersey, a un’ottantina di chilometri a sud ovest di New York, sede di un’antica, per gli Stati Uniti, università di modeste dimensioni e modesto livello accademico-intellettuale almeno fino al secondo decennio del XX secolo, eppure già dagli anni 30 assurta, per quanto possa risultare incredibile, a “centro matematico dell’universo”, secondo la definizione nient’affatto enfatica e immeritata di Harald Bohr, fratello del grande scienziato inventore della fisica quantistica Niels Bohr. Definizione ancora più sorprendente se si pensa che nei recentissimi trascorsi – quando dal 1903 al 1912 ne era stato rettore Woodrow Wilson prima di approdare alla Casa Bianca come 28esimo presidente degli Stati Uniti – la piccola in tutti i sensi università si teneva bene alla larga dalla matematica, che proprio Wilson riteneva materia fatta apposta per far venire il mal di testa agli studenti. Quando il ventenne John Forbes Nash – poi assurto agli onori della cronaca e pure della storia della scienza oltre che per la pazzia prima e il Nobel dopo, anche per essere stato celebrato col volto di Russell Crowe nel film di Ron Howard “A beautiful mind”, Oscar al miglior film nel 2001 – vi giunge nel 1948 con una borsa di studio e una tesi di dottorato che rivoluzionerà la teoria dei giochi, Princeton è il sogno dei matematici e dei logici matematici. Mica Harvard, mica Stanford. Princeton. Come si spiega un’esplosione di questa fatta dal niente al tutto nell’arco di poco più di una dozzina d’anni?
Con un formidabile concorso di circostanze in cui i soldi, dannatamente molti dollari americani di autentici colossi come la Fondazione Rockefeller, giocano un ruolo decisivo, non unico certamente, ma è così che l’evoluzione si spiega. In questo concorso, ma sarebbe ancora meglio dire intreccio, groviglio di circostanze o concause, la prima, dopo un rettore che ha in uggia la matematica come un eritema, sta in un vecchio amico di Wilson, Henry Burchard Fine. Fine era un matematico che aveva studiato anche in Europa, in Germania, e da professore a Princeton si sforzò di convincere Wilson a imprimere una svolta alla piccola università, troppo a suo parere schiacciata su studi tradizionali – data anche la fondazione voluta dai presbiteriani. E Wilson, al quale non pareva vero di togliersi la rogna di inoltrarsi in territori che sentiva estranei se non proprio ostili, gli lasciò in pratica la libertà di fare un po’ quel che gli pareva. Henry Fine fu allora l’uomo che, prendendoli letteralmente per mano, portò prima l’università di Princeton e poi l’intero sistema universitario americano dall’irrilevanza a un ruolo, se non preminente, certamente non secondario negli studi matematici. La Fine Hall, a lui dedicata dopo la morte accidentale per una caduta di bicicletta nel 1928, fu anche la prima sede del celeberrimo Institute for Advanced Study – la cui gloria definitiva verrà consacrata prima ancora che dall’insegnamento dalla pura e semplice presenza di Albert Einstein, appunto.
Ma Fine, prima col consenso di Wilson poi come presidente della facoltà di scienze dell’università di Princeton, si mosse pur sempre, nel reclutare scienziati, in un ambito al più nazionale, americano. E se questo fosse rimasto il raggio d’azione della politica espansionista dell’università il grande salto di qualità non ci sarebbe stato, non certo quello che porterà Princeton in un batter di ciglia sulla vetta del mondo degli studi matematici e logici.
Ci voleva altro. Ci voleva, ed ecco apparire il grande protagonista della nostra storia, il denaro, molto denaro. E denaro per così dire intelligente. Come quello della Rockefeller Foundation. I Rockefeller avevano accumulato immense fortune nel mezzo secolo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento spaziando con fiuto imprenditoriale e visione del futuro dalle ferrovie alla finanza, dal carbone all’acciaio e, insomma, mettendo lo zampino in tutti i settori decisivi per supportare l’ondata di industrializzazione del paese comprensiva delle condizioni di contorno in servizi e infrastrutture. Da questa centralità che proiettava l’America alla testa del progresso nel mondo, i Rockefeller furono i primi a rendersi conto che, senza coltivare in modo adeguato le scienze, l’istruzione superiore e universitaria americana, più che una locomotiva, avrebbe finito col rappresentare un freno allo sviluppo. Così la Rockefeller Foundation scelse e finanziò i programmi di espansione nelle materie scientifiche di alcune università americane, tra cui Princeton, irrorata già dalle intuizioni e dagli scienziati assunti da Henry Fine. Programmi che consistevano, oltreché in fondi per studenti e dottorandi, nella istituzione di cattedre per ricercatori e professori con stipendi principeschi, tali da attrarre i migliori cervelli non solo dell’America ma, ed era questo l’obiettivo numero uno, dall’Europa. Erano infatti Gottinga e Berlino, Parigi e Budapest, Vienna e Roma i centri della matematica, della logica e della fisica. Ed era in queste università e in queste capitali che operavano i talenti universali, i cervelli più geniali, le personalità più intraprendenti. Era dunque lì che bisognava andare per incontrare, convincere, arruolare il meglio del meglio; era il passo che l’America doveva compiere se voleva fare non solo soldi ma cultura, scienza, innovazione. Senza le quali, peraltro, anche i soldi non sarebbero durati per sempre.
Non basta. Gli sherpa della Rockefeller Foundation prima e quelli delle università beneficiate dopo non avrebbero avuto lo stesso successo se non fosse entrato in gioco un altro potente fattore, di ordine del tutto diverso: il nazismo e l’ascesa al potere di Hitler in Germania. Il paradosso di questa ascesa è che essa facilitò moltissimo l’incontro, che sarebbe stato altrimenti ben più complicato, e chissà se votato al successo, tra la domanda americana e l’offerta europea di cervelli – segnatamente, quest’ultima, dalla Germania e, ça va sans dire, da parte di scienziati ebrei già esclusi dalle posizioni di prestigio e dall’insegnamento, quando non già perseguitati. Dall’Italia nel ‘38 sarebbe fuggito lo stesso Enrico Fermi, la cui moglie era ebrea, non appena ricevuto il premio Nobel per la fisica ad appena 37 anni, spinto a quel passo dal “Manifesto della razza” e dalle leggi razziali istituite dal regime fascista proprio in quell’anno. Finì alla Columbia University. Ma l’asso pigliatutto fu l’università di Princeton che, forte dell’acume di Henry Fine, si era mossa per tempo e già nel 1930, foraggiata dalla Rockefeller Foundation, aveva reclutato dall’Europa due giovani di grandissime speranze, due geni nel senso più letterale del termine, i migliori della loro generazione: John von Neumann, un matematico che avrebbe lasciato impronte indelebili sulla teoria dei giochi e l’informatica, e Eugene Wigner, un fisico che avrebbe esplorato la struttura dell’atomo fino ad arrivare al Nobel nel 1963 – oltre a dare, più ancora di von Neumann, un contributo essenziale alla realizzazione della bomba atomica.
Ma quelli non erano che i prodromi di un’europeizzazione della matematica, della logica e della fisica americane, fenomeno che esplose a Princeton solo in seguito a una seconda e perfino più corposa immissione di capitali dopo quella della Rockefeller Foundation. E a questo riguardo, se proprio vogliamo incastrare un altro fattore nel groviglio che portò all’esplosione di Princeton, dobbiamo ricorrere a una componente in un certo senso sentimentale. I Bamberger erano proprietari di grandi magazzini di tessuti che dopo aver accumulato fortune da fare invidia ai Rockefeller avevano ceduto le loro attività proprio alla vigilia del crollo della borsa del ‘29, ritrovandosi con una montagna di dollari da non sapere letteralmente dove metterli, in un momento peraltro poco favorevole a siffatte allocazioni. Intesero celebrare degnamente l’apertura del loro primo punto vendita a Newark, New Jersey, con qualcosa di memorabile come l’apertura di una scuola medica – magari odontoiatrica, visto quanta poca odontoiatria e di che prezzo esisteva allora nel New Jersey. Ma non c’era forse già Princeton, nelle vicinanze, università per di più in piena fioritura che stava tentando, sotto l’egida della Rockefeller Foundation, la conquista di posizioni di rilievo in quelle scienze che avrebbero rappresentato le fondamenta del progresso tecnico ed economico, culturale e industriale, ancora a venire? Logico che non si potesse invadere il territorio a tal punto presidiato dell’università, ma niente vietava di affiancargli un istituto di ricerca che per un verso ne rafforzasse il prestigio e per un altro sfruttasse il riflesso di quello stesso prestigio. Fu ben più di questo, in realtà, quel che si riuscì a fare con l’Institute for Advanced Study, struttura separata ma tutt’altro che in opposizione all’università di Princeton – tanto che i professori dell’Institute condividevano all’inizio stanze e alloggi, seminari e conferenze, ricerche e riviste, con i colleghi dell’università e solo in un secondo tempo, nel 1939, traslocarono nella Fund Hall, edificio circondato da boschi e laghetti a un paio di chilometri, un tiro di schioppo, dall’università.
Abraham Flexner, che pur essendo un esperto di medicina aveva convinto gli amici Bamberger fratello e sorella, a fiondarsi segnatamente sulla matematica per il loro Institute for Advanced Study, aveva idee molto chiare al riguardo. Nel senso che alla scelta della matematica c’era arrivato perché (a) a differenza di tanti altri rami delle scienze c’era un consenso generale su quali fossero le più alte personalità del pensiero matematico nel mondo, e (b) proprio a quelle personalità intendeva puntare per fare dell’Institute for Advanced Study e dell’università di Princeton “il centro matematico dell’universo”. E fu così, sempre con la complicità inavvertitamente inarrivabile del nazismo, che Flexner ingaggiò i primi tre cervelli del mondo, le grandi star di là dall’Atlantico. Il più grande fisico-matematico, Albert Einstein; il più grande logico-matematico, Kurt Godel; il più grande matematico puro, Hermann Weyl. Non fu un’impresa semplice. Specialmente con Einstein le trattative furono lunghe. Tre anni, si dice. Ma tra il 1933 e il 1934 tutti e tre approdarono dalla Germania nel New Jersey. Con l’arrivo a Princeton del “Papa della fisica” i giochi erano chiusi e per i concorrenti non c’era più niente da fare. Princeton aveva vinto la partita, con annessi e connessi.
E così torniamo alla foto di partenza di questo articolo, che ritrae Einstein e Ben Gurion sorridenti. E’ il 1951 e sono ben 18 anni che lo scienziato è a Princeton. Che cosa ha fatto in tutto questo tempo il “Papa della fisica”? Pochissimo, almeno da un punto di vista strettamente scientifico – e non solo da quello. Come lui in parte anche Kurt Godel, peraltro sempre sul confine della depressione. Ma come, ci si chiederà, un mucchio di soldi per così poco? Intendiamoci, Princeton raggiunse l’avanguardia in tanti rami della matematica, dalla teoria dei numeri a quella dei calcolatori, dall’algebra alla topologia, e resterà sempre il “centro dell’universo” matematico. Ma all’Institute for Advanced Study non c’erano veri confini e separazione tra insegnanti e studenti, e neppure veri e propri corsi di lezioni: solo ricercatori che lavoravano liberi dalle pressioni del mondo esterno avvalendosi in vario modo dell’esperienza, dell’inventiva, del genio di quei personaggi inarrivabili. Per estremizzare, si potrebbe sostenere che bastava il nome di quei personaggi per richiamare a Princeton e all’Institute for Advanced Study i più giovani talenti da tutta l’America e per farli lavorare in combinazioni variabili tra di loro attorno ai progetti più innovativi. Una modalità di lavoro, peraltro, che avrebbe preceduto di decenni quella delle aziende statunitensi più all’avanguardia, da Google a Facebook. E che le avrebbe in un certo senso ispirate. I soldi non hanno fatto solo il Rinascimento fiorentino. Hanno attraversato i secoli per finire a condizionare a Princeton i destini matematici del mondo.
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