cattivi scienziati
Il mito dell'uomo cacciatore (e guerriero) non regge più
Nuove prove smentiscono la versione della “naturalità” di una ripartizione delle attività fra i sessi
Esiste una influente narrativa circa la nostra specie e quelle che ci hanno preceduto lungo il nostro ramo evolutivo, catturata nell’ambiguo modo di dire “l’uomo è cacciatore”. Secondo questa narrativa, fiorita soprattutto fra l'inizio e la prima metà del XX secolo, posto che la caccia e il consumo di carne avrebbero guidato i cambiamenti evolutivi più sorprendenti dell'umanità, tra cui il bipedalismo, l’accrescimento del cervello e l'uso di strumenti, sarebbero i maschi ad aver contribuito maggiormente al processo. I maschi ancestrali, così hanno scritto stuoli di antropologi novecenteschi, vagavano in lungo e in largo alla ricerca della preda, mentre le femmine rimanevano presso l’insediamento principale, raccogliendo piante e prendendosi cura della prole. La caccia maschile e la raccolta femminile sarebbero in questa visione un’antichissima divisione del lavoro fra i sessi, nata forse più di 1 milione di anni fa.
La ragione di questa “naturale” suddivisione, secondo i fautori della teoria, starebbe principalmente nella forza superiore degli uomini, nel tempo da dedicare alla prole da parte delle madri, nel sangue mestruale, in grado di attirare predatori e allertare le prede, o perfino in una supposta natura “più sedentaria e meno aggressiva”, come scrisse l'antropologo Brian Hayden nel 1981.
In realtà, già dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, si sono accumulate le prove archeologiche del fatto che le donne contribuiscono in modo sostanziale e da sempre alle dieta carnivora umana, non solo attraverso la raccolta di piccoli animali, ma anche come cacciatrici, e hanno partecipato attivamente, almeno nel passato, alle guerre.
Le prove archeologiche, tuttavia, sono state più di recente ricondotte da parte dei sostenitori della teoria dell’”uomo cacciatore” a un passato non più attuale, quasi a una sorta di “sperimentazione” socioculturale, perdente rispetto a un modello dominante molto simile a quello della narrazione originaria e preferita di una società guidata da uomini innanzitutto nella caccia e nella guerra, e quindi, per estensione, nella politica e nelle sua stessa struttura sociale.
Nuove prove, appena pubblicate, smentiscono questa ulteriore versione della “naturalità” di una ripartizione delle attività fra i sessi sin qui ritenuta prevalente.
Anche nelle società moderne, quello dell’”uomo cacciatore” è un mito, non appena si prenda in considerazione un campione sufficientemente ampio di organizzazioni umane diverse, invece di focalizzarci su quelle globalmente più diffuse e omogenee alla nostra.
Dopo analisi dei dati raccolti negli ultimi 100 anni su oltre 63 diverse culture di cacciatori-raccoglitori, è risultato che le donne cacciano nel 79 per cento delle società analizzate, indipendentemente dal loro status di madri. Più del 70 per cento della caccia femminile sembra essere intenzionale, e non l'uccisione opportunistica di animali incontrati durante lo svolgimento di altre attività. Inoltre, la caccia intenzionale da parte delle donne sembra prendere di mira animali di ogni taglia, molto spesso selvaggina di grandi dimensioni. L'analisi ha anche rivelato che le donne sono attivamente coinvolte nell'insegnamento delle pratiche di caccia e che spesso impiegano una maggiore varietà di armi e strategie di caccia rispetto agli uomini.
Probabilmente, l’erronea teoria della caccia prevalentemente o esclusivamente maschile è nata perché fondata su dati ottocenteschi e di inizio novecento, quando etnografi ed esploratori erano tutti uomini bianchi, che seguivano altri uomini nelle loro attività tradizionali, e non hanno documentato particolarmente bene le attività femminili; ma questo mito, duro a morire, oggi non ha più ragione di esistere, alla luce dei dati disponibili.
Né la caccia femminile è una caratteristica solamente umana. Come noto da anni, in alcune specifiche popolazioni di scimpanzè senegalesi è stata documentata la preparazione di lance di legno, appuntite intenzionalmente per poi essere usata nella caccia. Ebbene, anche in questo caso sono le femmine a usare principalmente le armi e a guidare nella maggioranza delle occasioni la caccia con quelle, anche se le bande di cacciatori sono costituite percentualmente in misura maggiore da maschi. Si tratta di una caratteristica specifica delle popolazioni che usano armi da caccia, perché in altri gruppi di scimpanzè che cacciano senza di quelle, sono i maschi a guidare e a passare più tempo in quell’attività.
Il quadro è quindi chiaro: come già l’archeologia aveva documentato, nei primati, anche nelle popolazioni moderne e anche in specie separatesi molto recentemente dalla nostra, la ripartizione di attività in base al sesso non comprende affatto in maniera necessaria la caccia (e la guerra).
La divisione rigida dei compiti in questi settori, quando emerge, definisce un tipo speciale e particolare, non particolarmente “naturale”, di società a guida maschile, tanto negli scimpanzè quanto negli esseri umani; la “regina guerriera” dell’età del rame in Spagna, di cui abbiamo discusso su queste pagine, probabilmente non rappresentava affatto una particolarità, ma solo la manifestazione di un ventaglio di possibilità ricorrenti nella nostra evoluzione.
È per questo che bisogna stare molto, molto attenti a introdurre supposti metri di “naturalità” nel comportamento umano, derivati da indagini etno-antropologiche che non siano recenti: la ricerca moderna, basata su analisi quantitative invece che sul racconto etnografico, ha ampiamente dimostrato e continua a dimostrare come molti dei nostri più consolidati luoghi comuni sono, in realtà, fondati sul pregiudizio, quasi sempre a beneficio della categoria di appartenenza degli esploratori di un secolo fa.
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