cattivi scienziati

Creare una vita dal nulla si può? La scienza ci si sta avvicinando

Enrico Bucci

Spesso viene chiesto se sia già possibile assemblare delle parti in maniera da creare una vita dal nulla. Per rispondere a questa domanda, però, bisogna innanzitutto stabilire che cosa si intende per "vita"

Una delle domande che più spesso sono rivolte dal pubblico alla comunità scientifica, ma che in generale evidenzia anche una riflessione interna a questa, è la seguente: quanto siamo prossimi alla possibilità di creare la vita dal basso, cioè assemblando componenti chiaramente privi di vita per ottenere un sistema che potremmo a buon diritto dichiarare vivo?

Si tratta di definire se e quanto vicini siamo cioè alla creazione della vita artificiale; qui vale la pena di introdurre innanzitutto una distinzione quanto ai componenti da utilizzare, che possono essere della stessa natura biochimica che osserviamo negli organismi selezionati dall’evoluzione darwiniana, ma in linea di principio non sono limitati a questi, se si dà una definizione di vita che non dipenda strettamente dalla sua composizione fisica.

Per dare questa definizione, dobbiamo quindi innanzitutto identificare cosa intendiamo per vita, ovvero cosa distingue un essere vivente da un oggetto privo di vita. Per i religiosi ed in generale per i vitalisti, la risposta è semplice: non è vivo ciò che non possiede per sua natura, o per opera di un dio, uno spirito o un’anima.

Per un biologo, tuttavia, la stessa cosa è vera per ogni organismo che chiamiamo vivente; di conseguenza, è necessario trovare qualche risposta più soddisfacente e meno tautologica, ma soprattutto meno dipendente dall’arbitraria decisione di rinvenire un’anima in un batterio o in un essere umano.

Proviamo quindi a definire la vita sulla base delle sue proprietà, invece che in base ad una sua presunta essenza (errore tipico del vitalismo). Possiamo in particolare elencare almeno un insieme minimo di queste, riferendoci innanzitutto alla capacità di riprodursi, poi di sostentarsi, cioè procurarsi autonomamente le risorse necessarie alla persistenza di un sistema vivente almeno sino alla sua riproduzione, poi di adattarsi, cioè di trasformarsi in risposta alle mutazioni ambientali che esercitino una pressione positiva o negativa sugli individui e sulle popolazioni, in maniera temporanea o permanente (come è il caso dell’evoluzione darwiniana).

A partire da oggi, per rispondere alla domanda di apertura, vorrei accompagnare il lettore in una passeggiata fra alcuni ultimi risultati della ricerca scientifica; ma invece di partire dai risultati ottenuti nei laboratori di chimica e biochimica, sorvoleremo, una proprietà alla volta, i laboratori di robotica, per dimostrare come e se, indipendentemente dal substrato fisico, siamo in grado di conferire le qualità necessarie ad un sistema fisico perché esso non sia distinguibile da un organismo vivente.

Cominciamo quindi il nostro itinerario dalla prima, indispensabile caratteristica della vita: la capacità che gli organismi viventi hanno di autoreplicarsi, detta in termini più eruditi “autopoiesi”.

Noi oggi basiamo il nostro mondo tecnologico sulla capacità di replicare indefinitamente software che può contenere ogni tipo di informazione; alcuni sono in grado anche di autoreplicarsi, e particolarmente interessante è il caso di reti neurali che raggiungono questa abilità in maniera spontanea, come forma di “apprendimento adattativo” 

Tuttavia, qui ci interessa la replicazione di oggetti fisici; siamo cioè interessati ad un tipo di sistema fisico chiamato “macchina cinematica autoreplicante”. Questa categoria include sistemi in cui oggetti fisici reali, non semplici modelli informazionali, dirigono la propria replica, ed ha una storia illustre, che possiamo far risalire alle prime formulazioni date da John von Neumann in alcune sue lezioni del 1948.

Von Neumann morì nel 1957, lasciando incompiuto un suo monumentale lavoro, dedicato proprio alla teoria dei replicatori cinematici. In sostanza, Von Neumann descrisse in termini più generali possibile un automa in un ambiente costituito da una miscela casuale di “pezzi”, in grado di cercare fra essi quelli giusti per assemblare copie di sé stesso.

La descrizione teorica di Von Neumann si è oggi avverata almeno in laboratorio per quanto riguarda le singole caratteristiche che aveva descritto.

Per esempio, sono stati realizzati semplici robot, composti da 4 parti cubiche diverse, in grado di individuare in un ambiente chiuso i pezzi di partenza, forniti dagli sperimentatori, e assemblarli costruendo copie di sé stessi, il tutto, naturalmente, sulla base di programmi informatici opportuni.

Esistono poi altri sistemi ibridi computer/stampante 3D che, quando sono alimentati con i giusti materiali di partenza (polimeri plastici), possono riprodurre le parti da cui sono composti. Il primo di questi sistemi, il quale è arrivato oggi a dimensioni sostanzialmente portatili, è chiamato RepRap, ed è in grado di rigenerare tutti i suoi componenti, ma non di assemblarli in una copia di sé stesso.

Ovviamente, è in linea di principio perfettamente fattibile integrare fra loro i due tipi di sistemi, quello dei cubi e quello della stampante 3D, per ottenere una macchina capace di produrre una copia di sé stessa, a partire da energia e materiali grezzi che, metabolizzati nella maniera opportuna (cioè, nel caso specifico, fusi e preparati per la stampa 3D), prenderebbero la forma dei pezzi successivamente assemblati a rigenerare l’intero apparato, fatta salva per il momento una componente fondamentale: la componentistica elettronica necessaria per il computer. Dico per il momento, perché ad oggi le migliori stampanti 3D usate nei processi industriali (ben più complesse di quelle che lavorano solo su polimeri plastici) sono in grado di stampare circuiti con risoluzione massima di un decimo di millimetro, a fronte della scala dimensionale molto inferiore degli attuali circuiti; tuttavia, la tecnologia sta evolvendo rapidamente, ed in laboratorio sono già stati prodotti nanocavi conduttori del diametro di decine di nanometri, per cui non sembra impossibile arrivare alla fine ad una fabbrica 3D autoreplicativa completa.

Anche senza scomodare quindi le provette dei chimici e i loro sistemi di autoreplicazione, sembra proprio che in linea di principio siamo nella giusta direzione per ottenere macchine autopoietiche.

Ma queste macchine saranno anche capaci di procurarsi le risorse necessarie ad ottenere le componenti da assemblare per fare nuove copie di sé stesse? Lo vedremo domani.