Cattivi scienziati
La natura agisce come gli ingegneri genetici: pezzi di Dna viaggiano fra specie diverse di continuo
In natura non esiste un genoma prefissato e unico, tipico di una varietà vegetale definita: il vero mostro non è l’Ogm, ma l’idea di un Dna mummificato e immobile nel tempo
Decenni di cospirazionismo e capitalizzazione della paura hanno messo all’angolo, anche legislativamente, ogni forma di intervento mirato sul genoma delle piante coltivate, toccando in Italia notevoli picchi di ipocrisia, visto il notevole tasso di importazione cui siamo costretti a ricorrere per esempio per mantenere in piedi la nostra filiera zootecnica. Tuttavia, le piante non sono affette dal nostro “fear mongering”, e gli scienziati hanno appena compiuto un notevole passo in avanti nel comprendere come, per esempio, in alcune piante erbacee il concetto di “genoma specifico” sia molto meno rigido di quanto i sostenitori di una natura immaginaria abbiano in mente. Facciamo un passo indietro. Almeno dai tempi in cui Darwin per la prima volta tracciò uno schema ramificato sul suo taccuino, si utilizza la metafora dell’ “albero della vita” per descrivere le relazioni filogenetiche fra gli organismi. In particolare, generalmente si tende oggi a utilizzare quella stessa metafora per rappresentare il graduale mutamento dei genomi degli organismi viventi, distinguendo fra loro due o più rami quando due o più gruppi di organismi raggiungono un certo livello di differenziazione del proprio “genoma medio”.
La realtà, tuttavia, è più complicata di così. Le specie non sempre si separano lungo il proprio percorso evolutivo isolandosi gradualmente da altri rami, in corrispondenza della diversificazione del proprio genoma. In effetti, se usiamo una soglia di differenza genomica per caratterizzarli, per moltissimi gruppi di organismi – principalmente fra i batteri e i microorganismi più semplici - i rami possono “riavvicinarsi” e riconfluire l’uno nell’altro, in un processo chiamato anastomosi, a formare una rete intricata di relazioni evolutive, più che un albero. Ciò accade perché, come molte volte abbiamo scritto su queste pagine, il trasferimento genetico di interi pezzi di DNA da un organismo ad un altro totalmente diverso è un fatto comunissimo, tanto che anche molta part del nostro genoma non si è formata nei nostri antenati, ma è stata acquisita come “pacchetto” attraverso virus e probabilmente anche batteri che hanno infettato quegli antenati e fuso parte del proprio genoma con il nostro, magari dopo aver acquisito da qualche fonte disparata proprio quello stesso pezzo. Questo processo, in generale, è chiamato trasferimento genico orizzontale e attraverso vari e diffusi meccanismi permette la condivisione delle informazioni genetiche tra rami distanti dell’albero della vita, “rimescolando le carte” genomiche di continuo e fra tutti i gruppi di organismi viventi, compresi piante, animali e funghi. Fra i vegetali, in particolare, nuovi dati hanno considerato certe varietà specifiche di piante erbacee, il cui interesse sta nel fatto che a questo gruppo appartengono alcune fra le più importanti colture, come ad esempio riso, grano e mais. Nel loro insieme, le erbe coprono oggi quasi il 40% della superficie terrestre e costituiscono la maggior parte dell'apporto calorico per l’alimentazione umana. Il trasferimento genico orizzontale tra specie erbacee è stato riscontrato sia nelle specie selvatiche che in quelle coltivate. In un recente studio, pubblicato su New Phytologist, si è finalmente provato a quantificare l’estensione di questo fenomeno.
Sono stati in particolare sequenziati diversi genomi dell'erba tropicale Alloteropsis semialata per stimare la frequenza dei trasferimenti genici in questa specie. I risultati hanno mostrato che in questa erbacea modello un gran numero di geni è stato acquisito in maniera continua nel corso della storia evolutiva della specie, con un gene estraneo incorporato in media circa ogni 35.000 anni. Si noti che questo è il tasso netto di incorporazione di materiale genetico estraneo, che non tiene conto di quanto è stato nel frattempo perso, oltre che acquisito; dunque, si tratta certamente di una notevole sottostima di quelle modifiche genetiche che naturalmente occorrono nelle piante di questo tipo. È infatti probabile che la maggior parte dei geni trasferiti non dia alcun beneficio al ricevente e possa persino avere conseguenze negative per la pianta; questi geni, ovviamente, sono persi molto rapidamente dopo il trasferimento – sono cioè un “esperimento” di trasformazione genetica fallito. In particolare, dai dati a disposizione (ottenuti confrontando 40 specie diverse dello stesso genere, in modo da evidenziare anche il tasso di perdita di geni precedentemente acquisiti), i ricercatori hanno identificato 168 geni acquisiti lateralmente in cinque specie dello stesso genere di erba tropicale (32-100 per genoma). I modelli di decadimento esponenziale indicano che il tasso di acquisizione è fra 6 e 28 geni per milione di anni, e le successive perdite (11–24% per milione di anni) variavano in modo significativo tra specie diverse. Come atteso per il fatto che essi non sono in generale vantaggiosi, salvo rare eccezioni, i geni acquisiti lateralmente venivano persi a un tasso più elevato rispetto a quelli ereditati dai genitori, nel modo tradizionale cui siamo abituati a pensare. Fra quelli che sono stati conservati, esattamente come accade per gli OGM creati dall’uomo, molti geni trasferiti orizzontalmente conferiscono alle erbe studiate resistenza alle malattie, tolleranza allo stress e un metabolismo più efficiente.
Il trasferimento genico orizzontale consente all’erba ricevente di saltare il lungo processo di evoluzione necessario per ottenere da zero tratti utili, per cui le piante erbacee agiscono oggi come una sorta di “spugna genetica” in grado di catturare dalle piante vicine tratti di ogni genere, i quali sono poi sottoposti al vaglio severo della selezione naturale. In definitiva, il trasferimento genetico orizzontale e le colture GM hanno lo stesso risultato: un gene di origine estranea viene inserito nel genoma del ricevente, producendo un notevole cambiamento nel fenotipo della pianta che può persistere o meno a seconda della successiva selezione. Questo processo, quando accade in natura, ha come detto un’efficienza limitata, come si vede dalla continua perdita dei geni di nuova acquisizione: molto del materiale in ingresso, ottenuto a caso, non è utile o è addirittura svantaggioso. L’uomo, al contrario, è in grado di guidare in maniera precisa ciò che accade, selezionando il gene giusto senza affidarsi al caso, limitando in questo modo non solo il rischio “naturale” di ottenere piante geneticamente inferiori, ma anche piante molto migliori dei propri progenitori, e per questo, per esempio, più invasive, più tossiche ed in definitiva ecologicamente più impattanti.
Non vi è nulla di più naturale di una trasformazione genetica, e proprio fra le piante di cui ci alimentiamo – non solo l’era modello qui discussa – i meccanismi e la frequenza con cui tale processo avviene sono moltissimi e indipendenti dal nostro controllo. Ciò che è invece innaturale, deviante rispetto a quanto accade ogni giorno nei prati e ovunque vi siano piante diverse, è il congelamento del genoma ad una precisa ed immutabile sequenza; sono questi genomi mummificati i veri “mostri” innaturali, e mai, né nei nostri campi, né nei nostri piatti è passato altro che un continuo rinovellarsi di cambiamento attraverso quella che Shapiro ha definito “ingegneria genetica naturale”.
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