Il genio
La pazienza di Gregor Mendel: il precursore della genetica rimasto nell'ombra
Un esperimento di 7 anni per dimostrare l’ereditarietà dei caratteri. Fu un pioniere della scienza e della ricerca, ma la comunità scientifica lo snobbava
Il botanico tedesco J. K. Koelreuter era sulla buona strada già prima della fine del ‘700. Aveva incrociato garofani bianchi e garofani rossi ottenendo piante ibride con fiori rosa, il colore di mezzo tra il bianco e il rosso, che nella generazione successiva producevano progenie con fiori rosa, ma anche bianchi e rossi come i colori dei due genitori. In altre parole: mentre gli ibridi di prima generazione erano di un solo colore a metà tra i due colori originari, quelli di seconda generazione erano addirittura di tre colori: il colore a metà e i colori di partenza, quelli dei genitori. Sorprendente. Per allora.
Si fermò a questo punto. Colpito e affondato dalla critica che gli arrivò dalla scuola olistica tedesca che riteneva che le singole parti di un organismo prese in se stesse non significassero alcunché e che dunque gli incroci tra piante con possibilità diverse e alternative per uno stesso carattere (come appunto il colore) non avessero senso, se proprio – giacché si ragionava allora in base alla teoria della fissità delle specie – non erano addirittura moralmente riprovevoli. C’erano pure personaggi del calibro di Hegel e Goethe, nella scuola olistica, a riprova che a volte capita anche ai geni di imbarcarsi in battaglie di retroguardia.
Quando Mendel arrivò nel monastero di Brno nel 1843, a 21 anni, inseguito da ristrettezze economiche che non gli avrebbe permesso di continuare gli studi, altri sperimentatori avevano consentito di appurare un fatto, fondamentale per la genetica che ancora non si chiamava così per la buona ragione che ancora non esisteva, ma che in certo senso si stava preparando la strada dell’entrata in scena: negli esperimenti di ibridazione delle piante, nelle progenie degli ibridi ricomparivano anche i caratteri dei genitori. Ma non era chiaro né in che proporzioni, né come, né perché. Ordinato sacerdote nel 1847, quando assunse il nome di Gregor, Mendel dimostrò subito una spiccata passione per le scienze naturali, segnatamente per la biologia e la sua quota più sperimentale dell’ibridazione. Ma fallì l’esame per il diploma di insegnante proprio in Biologia. Un bene, quel fallimento, visto col senno di poi, perché il monastero di Brno, interessato alla materia, non esitò a mandarlo all’Università di Vienna dove, in un ambiente aperto e illuminato dalle più belle menti del tempo, imparò tutto quel che c’era da imparare sulla teoria cellulare degli organismi viventi, sulla teoria atomica in chimica, e segnatamente sui metodi sperimentali per cercare di spiegare l’evoluzione della materia organica.
Fece ritorno al monastero di Brno dove nel 1856 dette il via a un monumentale disegno sperimentale per capire gli ancora profondi misteri della fecondazione, ovverosia della trasmissione dei caratteri dai genitori ai figli e da questi alle generazioni successive: il nocciolo, appunto, della genetica, anche di quella umana. Tre anni dopo l’inizio della sperimentazione di Mendel, nel 1859, usciva “L’evoluzione delle specie”, di Charles Darwin. Insomma, i tempi erano quelli. E cominciavano ad essere maturi per un grande salto anche nel campo dell’ibridazione delle piante, ch’era allora il vero “campo da gioco” per capire la trasmissione dei caratteri, che a sua volta significava, per quanto ancora non si sapesse, quella paroletta magica che apriva le porte del futuro alle scienze della vita: genetica. Intendiamoci, coltivatori e agricoltori ibridavano innestando una pianta nel corpo di un’altra, e analogamente, non guardavano alla teoria ma all’utilità, e si dica pure ancora più pragmaticamente al portafoglio. Andavano in cerca di maggiori rese e, se possibile, pure di migliore qualità. Perché, per quali insieme di fattori e cause si riuscissero a volte ad ottenere per quella via ibridante certi risultati che risollevavano l’annata era altra questione che ad altri competeva. Agli scienziati, ai professori. Ai geni, meglio ancora.
Era un genio Gregor Mendel? Stando ai suoi contemporanei, una figura di mediocre rilievo. Quando dopo l’università a Vienna si presentò una seconda volta all’esame per poter insegnare alle scuole superiori lo ri-bocciarono senza pietà – anche se gli riuscirà di fare almeno il supplente. E questo è niente, perché dei risultati del suo esperimento, di cui diremo, non si presero la pena di capire l’abc. La Società di Scienze naturali di Brno non li degnò di un commento.
Non gli restava che rassegnarsi. Non subito però. Prima interloquì con quello che era forse il maggior botanico del paese, C. von Nägeli, per cercare di non condannare al silenzio lo sforzo di anni di lavoro. E ne accetta i suggerimenti al punto da intraprendere un programma di produzione di ibridi di varie specie – atteggiamento che però non gli valse alcun riconoscimento da parte Nägeli. E fu allora che si ritirò, anche in quanto eletto abate del convento nel 1868.
Non fece più nulla di scientifico, né scrisse altro di rilevante dopo la sessantina di pagine che gli occorsero per dar ragione, in un articolo intitolato come più modestamente non si sarebbe potuto “Esperimenti su ibridi di piante”, di quel che aveva ricavato da sette lunghi anni di un’unica, potente, risolutiva sperimentazione. Pagine che rappresentano per la genetica ciò che le pagine, molte e molte di più, de “L’origine delle specie” rappresentano per la teoria dell’evoluzione. Ma il genio di Darwin fu subito chiaro. Quello di Mendel neppure preso in considerazione. Occorreranno quasi quarant’anni, quando il nostro era morto da venti, perché la scienza riscoprisse quei risultati a cui Mendel arrivò con un anticipo sui tempi che gli fu fatale.
Il perché è presto detto, anche se la scienza non ci sente da quest’orecchio. Lezione scomoda. Il lavoro di Darwin si lasciava leggere scorrevolmente, nonostante la mole, non così quello pure assai più breve di Mendel. Quello di Darwin richiedeva sì attenzione ma era di facile comprensione, quello di Mendel nient’affatto. Darwin la risolveva in prosa, la sua teoria. Mendel la metteva giù in numeri, crudi e duri e tutt’altro che facili da interpretare. Non c’è mai stata partita, tra i due. Darwin sugli altari, pur se passò pure lui le sue vicissitudini. Mendel nella polvere. Ancora oggi il divario è immenso. Darwin è patrimonio universale, una sorta di David di Michelangelo della scienza e della cultura. Mendel, materia per specialisti. Tornò dunque a pregare, il nostro, a coltivar piante, ma senza intenti scientifici, solo d’utilità, per monaci e monastero, a rilevare le temperature, mattina e sera, come sempre aveva fatto in quello che fu il suo buon ritiro, il monastero di Brno, dal quale non mise più fuori la testa e nel quale morì nel 1884, a 62 anni.
I monaci, che lo assecondarono in tutto, capirono; gli scienziati, che tutto gli negarono, no. Potrà sembrare strano, ma nel caso di Mendel è così che stanno le cose.
D’accordo, ma cosa aveva dunque fatto di così straordinario il buon Mendel da meritare di più di quel che ebbe quand’era in vita – e che fu letteralmente un bello zero? Fece un esperimento, si è detto. Uno – quel che venne dopo furono spiccioli per cercare di compiacere quel Nägeli che non aveva fiducia nei risultati da lui ottenuti. Ma di anni luce superiore a tutto quel che di sperimentale si era fatto fino a quel momento nell’ambito dell’ibridazione e si dica pure della biologia. Non certo casualmente Thomas Hunt Morgan, già professore di Biologia alla Columbia University e direttore dei Laboratori di Biologia del California Institute of Technology a Pasadena ebbe a definire, in un discorso di commemorazione tenuto a Roma nel 1936, quella di Mendel “la più grande scoperta scientifica nel campo della biologia degli ultimi 500 anni”. La scoperta niente meno che delle leggi dell’ereditarietà dei caratteri nel combinarsi di varietà di piante. Piante nelle quali quei caratteri si presentavano diversamente.
Cominciato nel 1856 l’esperimento – che si articola in più percorsi sperimentali raccordati in un unico, organico disegno – si concluse solo sette anni dopo, nel 1863, ma altri due anni ne richiese di sistemazione, organizzazione, interpretazione e sintesi dei risultati, fino ad arrivare a un rapporto finale di ricerca che fu presentato nel 1865 in due sedute alla Società di Scienze Naturali di Brno senza sollevare un solo battito di ciglia nell’autorevole consesso dei suoi membri e un anno ancora, a voler essere pignoli, prima di comparire nel 1866 negli Atti di quella società.
Dieci anni, in totale. La pazienza di Mendel. Sette anni pieni di sperimentazione nel monastero di Brno, dove i monaci gli avevano messo a disposizione tutto il terreno e il resto che gli serviva per gli incroci delle varietà di pisum, il pisello, la pianta che aveva scelto a base della sperimentazione. E già qui fa capolino il suo geniaccio. Il pisum presentava infatti molte varietà, e Mendel non voleva fermarsi affatto a un esperimento del tipo dei garofani di. J. K. Koelreuter – un solo carattere, il colore, per due sole varietà della pianta: a fiori bianchi, a fiori rossi – troppo limitato, impossibilitato a fornire generalizzazioni utili a stabilire una teoria. Perché era nientemeno che a una teoria dell’ereditarietà dei caratteri che puntava il tranquillo monaco Johann Gregor Mendel. Che scelse il pisum anche perché i caratteri erano ben evidenziati nelle diverse varietà della pianta (e ne scelse addirittura 22, delle 34 varietà di pisum conosciute) e tali restavano a dispetto delle vicissitudini meteorologiche. Ma la manifestazione del puro genio arriva nella messa a punto di un disegno sperimentale che sarà di un impianto e di una numerosità tali da prestarsi, secondo le esplicite intenzioni di Mendel, a una analisi statistica rigorosa dei risultati per stabilirne in modo inconfutabile l’attendibilità. Mendel sa che è qui, soprattutto qui, la debolezza dei tanti sperimentatori, che hanno creduto di prendere scorciatoie. Che però non esistono. Se si vuole arrivare a risultati conclusivi occorre raccogliere dati numerosi, occorre compiere esperimenti di grandi dimensioni. Ed ecco allora la pazienza di Mendel: sette anni per un solo mega esperimento, tanti anni quanti sono gli esperimenti – sette, appunto – in cui è articolato il disegno sperimentale, un esperimento per ciascuno dei seguenti caratteri del pisum: la forma dei semi, il colore dei semi, il colore dei tegumenti dei semi, la forma dei baccelli, il colore dei baccelli, la distribuzione dei fiori lungo il fusto della pianta, la lunghezza del fusto. Mendel incrocia tra di loro piante in cui ciascuno di questi sette caratteri, che sono binari, si presentano nei due modi alternativi per valutare in quali proporzioni appaiono negli incroci e successivamente nelle generazioni che da questi incroci derivano (ibridi). Sono le leggi dell’ereditarietà, che si rivelano ai suoi occhi. Una di queste leggi, quella della dominanza, è così descritta nelle parole del monaco: “In ciascuno dei sette incroci il carattere dell’ibrido somiglia così da vicino a una delle forme parentali che l’altro sfugge completamente all’osservazione”. Chiamerà dominanti i caratteri che appaiono e recessivi quelli che “si ritirano o scompaiono completamente negli ibridi”. Tra la forma rugosa e quella tondeggiante del seme – primo carattere esaminato – è quella tondeggiante che appare negli incroci, mentre l’altra no, si nasconde, si ritira. Ma per ricomparire. Già nella seconda generazione degli ibridi Mendel scoprirà infatti che vige il rapporto di 3 a 1 tra caratteri dominanti e caratteri recessivi. Ogni quattro piante una avrà, per stare all’esempio, semi rugosi; 3 semi rotondi.
Mendel sa dell’esistenza di fattori responsabili delle diverse manifestazioni di questo o quel carattere. Fattori, al momento, non geni. I geni arriveranno dopo, e Mendel morirà prima che vengano scoperti. Ma è del concetto di fattori che si accontenta, riconoscendo che la manifestazione dei caratteri si compie grazie all’azione di forze/sostanze chimico-biologiche delle piante ch’egli non ha modo di osservare direttamente.
Ma i risultati così come sono pubblicati negli Atti della Società di Biologia di Brno dell’anno 1866 sono sorprendentemente netti e univoci a giudizio di R. A. Fisher, il padre dell’inferenza statistica, ovvero di quel complesso di teoria e analisi statistica che consente di attribuire un risultato sperimentale all’azione di fattori sistematici posti sotto osservazione nell’esperimento (come ad esempio il principio attivo di un farmaco) o non piuttosto al caso. Fisher per dirla in parole povere sospettava, e ne scrisse nel 1936, qualche benevolo (ma nient’affatto distorsivo e men che meno decisivo) aggiustamento dei risultati, per renderli più aderenti alle conclusioni. Molti si sono risentiti, di questo sospetto. Chi scrive crede che Fisher avesse ragione. Ma una ragione che va in qualche modo a merito di Mendel. Ne dimostrerebbe infatti la consapevolezza. Mendel fece un esperimento lungo sette anni. Ma per come l’aveva impostato gli fu tutto chiaro ben prima. Ebbe la pazienza di attendere. Voleva dare al mondo e alla scienza risultati inappellabili. Ci riuscì. Anche se occorsero quattro decenni dopo ch’ebbe messo la parola fine al lavoro che lo avrebbe reso immortale perché qualcuno, tre diversi ricercatori distintamente, quell’immortalità quantomeno subodorasse.
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