L'analisi
Archiviata l'idea di progresso, che fatica districarsi fra le crisi della modernità
Le sfide di oggi e il senso di ineluttabilità che ci avvolge: come non affrontare le difficoltà in modo fatalistico, ma considerarle come opportunità di guadagno o perdita
Il pensiero occidentale, a partire dai greci, ha sempre pensato la storia umana come una crescita dallo stato primitivo, ingenuo, barbaro, a quello più complesso della civiltà. Ma un conto è pensare la crescita in termini di cicli, come facevano i greci, altro conto è pensarla in senso escatologico, come una crescita che, vedi Agostino, pur procedendo secondo lo schema ciclico di crescita e decadenza, ha una dimensione lineare che va da Adamo fino all’“ultimo giorno”, ossia alla definitiva vittoria della città di Dio sulla città terrena. Qualcuno sostiene con buone ragioni che senza il tempo lineare dei cristiani non si sarebbe mai potuta sviluppare l’idea moderna di progresso. Ma per avere il concetto moderno di progresso, oltre all’idea del tempo lineare, ci vuole un ulteriore elemento, ossia l’idea di un progresso indefinito.
“L’uomo non degenererà mai e… non vi sarà fine alla crescita e allo sviluppo della saggezza umana”: ecco quello che secondo Robert Nisbet, uno dei massimi studiosi dell’argomento, è il vero luogo genetico dell’idea moderna di progresso. Quando Fontanelle scrisse queste parole, nel 1688, al centro della cosiddetta “disputa tra gli antichi e i moderni”, si discuteva principalmente della questione della conoscenza; si discuteva se gli antichi si dovessero considerare superiori o inferiori ai moderni; ebbero la meglio i moderni, sulla base di una concezione cumulativa, diciamo pure, progressiva della conoscenza. Successivamente, nel Diciottesimo secolo, il concetto di progresso venne esteso all’intera civiltà, dando rilievo anche ai possibili ostacoli che avrebbero potuto rallentarne il cammino, ma non fermarlo. Un po’ come un periodo di siccità può ostacolare la normale crescita del seme, allo stesso modo una cattiva istituzione o un cattivo gruppo sociale possono ostacolare il normale corso della storia.
Il progresso si fonde così con la credenza in un ordine naturale delle cose, che è poi il vero elemento precursore delle teorie “scientifiche” del progresso tipiche del Diciannovesimo secolo, Marx e Comte in testa. Dal concetto di progresso intellettuale e culturale, si passa a quello dell’umanità in generale, spostando l’attenzione sulle diverse tappe attraverso le quali essa è passata prima di raggiungere lo stato attuale. Il mutamento, si dice, è naturale, segue una direzione, è immanente, è continuo, è necessario, deriva da cause uniformi: questi i caratteri che, secondo Nisbet, stanno alla base della moderna idea di progresso. La filosofia, la politica e soprattutto la scienza e la tecnica, tutte a vario titolo concorrono alla realizzazione di questa idea. Come aveva sostenuto Kant, il mondo è “in costante progresso verso il meglio”; la storia, come aveva sostenuto Hegel coincide con l’espandersi e il sempre più profondo affermarsi della libertà; il materialismo storico, come pensava Marx, è “il risolto enigma della storia che si sa come tale soluzione”; la storia, come pensava Comte, dopo essere passata attraverso lo stadio religioso e quello metafisico, è finalmente giunta al suo stadio positivo; in una parola, come nel sogno, o nel delirio, di Faust, davanti all’uomo si stendono praterie infinite per le sue imprese liberanti grazie al lavoro e alla scienza e contro le superstizioni del passato.
Declinata nei modi più vari, questa concezione del progresso diventò la fede media dell’intellettualità europea e delle stesse classi dirigenti fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. In realtà Nietzsche ne aveva scardinato ben prima tutti i suoi presupposti, ma, come dice Gennaro Sasso in uno splendido libro di quarant’anni fa intitolato Tramonto di un mito. L’idea di progresso tra Ottocento e Novecento, ci volle “il famoso colpo di cannone”, per scardinare quest’idea dalla coscienza europea di quel tempo. E dai fasti del progresso piombammo nella crisi, vero brodo di coltura della tragedia totalitaria, dalla quale uscimmo solo in parte dopo la Seconda guerra mondiale.
A tal proposito non credo che sia troppo fuorviante definire il secolo Ventesimo come il “secolo delle grandi crisi”. Dall’inizio alla fine, questo secolo ci ha fatto vedere di tutto: la crisi del “mondo di ieri”, la crisi dei fondamenti delle scienze, la crisi dell’idea di progresso, la crisi dell’arte figurativa, del romanzo, della verità, della metafisica, la crisi della dignità umana (si pensi al fenomeno totalitario), la crisi delle ideologie, fino a giungere addirittura alla crisi della modernità, ossia alla crisi di quei filoni dominanti della cultura moderna, relativamente ai quali erano state dichiarate in crisi pressoché tutte le forme della tradizione occidentale. Oggi, archiviata l’idea di progresso, facciamo ancora fatica a districarci da queste crisi; qua e là un senso di ineluttabilità ci avvolge. Ma le sfide che abbiamo di fronte, dall’ecologia alle intelligenze artificiali alle nuove frontiere della biologia sintetica, ci invitano a uscirne, diciamo pure che ci invitano a una consapevolezza nuova anche riguardo alla crisi. Non possiamo più considerarla euforicamente secondo l’ideologia del progresso come semplice passaggio verso qualcosa di migliore, né possiamo considerarla pessimisticamente secondo la “cultura della crisi” d’inizio secolo scorso. La crisi di qualcosa, di per sé, può significare sia una perdita da evitare che un guadagno da promuovere. Ciò vale anche per le molte crisi del Ventesimo secolo. Sta a noi non cedere alla pigrizia di pensare che, per una ragione e per un’altra, tutto accada ineluttabilmente. È in fondo anche questo un modo di essere fedeli alla nostra libertà e responsabilità.