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Cattivi scienziati

Lo sforzo per trovare vite aliene è solo agli inizi

Enrico Bucci

L’astrobiologia ha implicazioni fondamentali non solo per quello che si può ovviamente immaginare, ma anche per la determinazione della probabilità di quell’evento che ha portato al sorgere della vita sul nostro pianeta

Rispetto anche a solo un ventennio fa, la conoscenza che abbiamo del nostro universo è migliorata in maniera tale, che un problema particolare – la possibilità che la vita sia sorta indipendentemente altrove, fuori dal nostro pianeta – appare in una luce completamente diversa.
 

Il campo scientifico chiamato (forse un po’ troppo baldanzosamente) astrobiologia ha per obiettivo la verifica di questa possibilità; ma, facendo un passo indietro, la risposta a questo problema è cruciale anche per la comprensione dell’origine della vita sul nostro pianeta. Il perché è presto detto: se la vita è sorta sul nostro pianeta, vi deve essere una probabilità non nulla che questo possa succedere nelle opportune condizioni; e la stima dell’ampiezza di questa probabilità dipende dalla diffusione di queste condizioni preliminari nel cosmo, che possono ovviamente accrescerla o diminuire di molto. Non a caso, questo argomento viene usato “a rovescio” dai creazionisti per giustificare le proprie credenze: se, infatti, esistono condizioni di chimica prebiotica tali da dare origine spontaneamente alla vita, e se queste sono sufficientemente diffuse nel cosmo così che la vita sulla Terra non sia proprio un fenomeno del tutto eccezionale, il “dove sono tutti quanti” di Fermi diventa una domanda cruciale. Se, invece, tali condizioni dovessero risultare specialissime e uniche, allora il realizzarsi di queste e poi della vita sul nostro pianeta richiederebbe una spiegazione ad hoc, non dissimile in questa sua natura da quella che danno gli stessi creazionisti.
 

Dunque, abbiamo la prova logica dell’esistenza di un dio creatore che ha predisposto le cose per la nascita della vita, visto che “gli altri” non si vedono all’orizzonte, nonostante le avveniristiche tecnologie che stiamo utilizzando per cercarli ovunque ci dicono sempre più che la chimica organica alla base del sorgere della biochimica non è poi così rara? Le cose non stanno così, e vorrei approfittare di un recente articolo apparso sulla rivista scientifica “Astrobiology” per spiegare perché.
 

Partiamo dunque dal contenuto di questo articolo. Nella primavera del 2022, oltre 100 scienziati e tecnologi hanno preso parte a un seminario supportato dalla NASA incentrato sulla scienza e sulla tecnologia coinvolte nella ricerca di segni di vita nel sistema solare. I risultati di questo convegno, pubblicati di recente nell’articolo citato, mettono in chiara evidenza le discussioni che hanno avuto luogo riguardo ai progressi necessari sia nelle tecniche di misurazione che nella tecnologia per le future missioni progettate per cercare e rilevare segni di vita in situ nel Sistema Solare, con particolare riguardo agli ambienti ritenuti più promettenti - Encelado, Europa, Marte e Titano.
 

Il punto che qui mi interessa è che, al di là dei dettagli, il grosso della discussione ha riguardato le tecnologie e le precauzioni da adottare per il campionamento diretto dai corpi celesti oggetto di interesse, evidenziando le barriere che sono tuttora ancora da superare e dovrebbero quindi essere l’obiettivo della maggioranza degli sforzi. Si dà cioè per scontato che, senza campionamento, non saremo mai in grado di rilevare prove univoche dell’esistenza di vita fuori del nostro pianeta. Perché? Farò un esempio semplice.
 

Considerate una popolazione di oggetti chimici anche complessi, che evolve adattativamente in risposta alle condizioni ambientali. Per esempio, immaginiamo che nei Geyser di Encelado, che sorgono ad altezze enormi dalla sua superficie gelata e che sono campionabili, contengano una popolazione di molecole a base di carbonio ricca e abbondante, la quale evolve nel tempo. Questa evoluzione potrebbe dipendere da caratteristiche ambientali specifiche: per esempio, vi potrebbero essere cicli geochimici in grado di influenzarne la composizione distruggendo selettivamente alcuni composti attraverso l’innalzamento della temperatura oppure di arricchire la popolazione in certi tipi di molecole a seguito di caratteristiche specifiche dei cicli stessi. Se questi cicli variassero nel tempo, la popolazione chimica varierebbe a sua volta nel tempo in composizione, evolvendo in risposta alle condizioni ambientali sotto la superficie gelata. L’evoluzione adattativa osservata, in questo caso, non sarebbe guidata da un processo darwiniano, perché alla base della generazione di varietà selezionate e del cambiamento in composizione della popolazione non vi è il processo di replicazione con errore, ma una diversa fonte di diversità chimica; ma senza campionare, e osservando solo questo processo evolutivo, non potremmo sapere se stiamo davanti a quello speciale dell’evoluzione darwiniana oppure no.
 

Considerazioni simili si potrebbero fare, osservando il consumo di energia e la generazione di entropia possibili in reazioni cicliche come quelle che avvengono in presenza delle fumarole vulcaniche: avremmo un “proto-metabolismo” in atto, che, a distanza, non potrebbe essere distinto nei suoi effetti di consumo di energia e generazione di entropia per produrre molecole complicate da un vero metabolismo legato a organismi viventi. Persino se si riuscisse a osservare a distanza la crescita esponenziale di oggetti davvero simili a cellule, come delle vescicole lipidiche in grado di accrescersi fino a dividersi per ragioni fisiche in vescicole “figlie”, neppure in questo caso potremmo essere certi di avere la prova di vita sul corpo celeste osservato.
 

Per essere certi che la vita sia presente, abbiamo bisogno di trovare un replicatore che commette errori nel processo di copia dell’informazione necessaria a generare altre copie. Inoltre, gli errori di copia devono essere in grado di influenzare la fertilità e la finestra riproduttiva dei discendenti, in risposta alle condizioni ambientali che essi sperimentano. Il tutto – ma questo è richiesto dalle leggi della fisica, ed è conseguenza delle prime assunzioni – deve avvenire consumando energia e precursori e generando entropia.
 

Per verificare che un simile oggetto esista al di fuori del nostro pianeta, sperando che non sia così chimicamente diverso da perdercelo per mancanza di sufficiente immaginazione preventiva, abbiamo forzatamente la necessità di campionare gli ambienti extraterrestri in cui riteniamo che esso potrebbe esistere; da qui lo sforzo della NASA e della comunità astrobiologica mondiale, descritto nel lavoro che ho citato.
 

Dove sono tutti quanti, dunque? Per le ragioni appena illustrate, potremmo non saperlo mai, perché o davvero la possibilità di vita ha una probabilità così alta, da potere direttamente dimostrarla nei campioni trovati nel nostro sistema solare, oppure, anche se essa dovesse essere comune nell’universo, è e resterà fuori portata per il necessario campionamento, a meno di fare la specialissima ipotesi che essa sia evoluta a tal punto da poter emettere volontariamente un segnale riconoscibile da noi – evento la cui probabilità può per il momento considerarsi trascurabile.
 

Ma allora l’astrobiologia a che serve? Per intanto, a dimostrare che la possibilità di vita è molto più ampia di quello che immaginiamo: laddove un tempo, trovando i composti alla base della vita in ambienti extraterrestri, avremmo gridato alla scoperta della vita aliena, oggi sappiamo che essi sono prodotti spontaneamente ovunque nel cosmo da fenomeni abiotici, creando le condizioni per quella possibilità. Se riusciremo davvero a trovare tracce inequivocabili di vita nei campioni di corpi celesti a noi vicino, allora essa è ovunque esponenzialmente più abbondante di quello che immaginiamo; ma oggi abbiamo già potuto dimostrare che almeno le condizioni conduttive per la vita, in termini chimici, sono molto meno speciali di quello che si potesse pensare.

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