cattivi scienziati
Quella paura della "tecnocrazia" che non risparmia neppure Meloni
Dice la premier che il mondo scientifico e la politica devono muoversi coordinati come due ali. Ma il confine della collaborazione è sottile e l'autonomia della ricerca non può essere inficiata da portatori di interesse particolari, come i governi di turno
Oggi il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha tenuto un intervento all’iniziativa "La Scienza al centro dello Stato" promosso dalla Italian Scientists Association (ISA) a Palazzo Wedekind, a Roma. Ora, la presenza del massimo rappresentante del governo italiano a un evento organizzato da un’associazione di accademici e ricercatori per presentare un testo – un “Manifesto della Scienza” – volto alla rivendicazione del ruolo sostanziale che la scienza ha per il benessere della società e del cittadino è certamente un inusuale e positivo segno di attenzione della politica per certi temi, attenzione per altro sottolineata dalla contemporanea presenza anche del ministro dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini e del ministro della Salute Orazio Schillaci.
Ma ancora più importante rispetto al risultato di lobbying raggiunto dall’ISA nei confronti della politica nazionale, è l’analisi del discorso che Meloni ha pronunciato, un discorso lungo, non privo di elementi di interesse, dei quali qui intendo richiamare i punti che mi hanno maggiormente colpito.
L’elemento a mio giudizio di maggiore importanza del discorso che abbiamo udito dal presidente del Consiglio è stato da lei riassunto con un’immagine più volte ribadita: quella delle due ali, la scienza e la politica, che dovrebbero agire all’unisono e in coordinazione per sollevare il cittadino italiano e la società tutta verso condizioni via via migliori. Dietro la ripetuta necessità di collaborazione, Meloni ha tuttavia ben presto evidenziato quella che è la bestia nera di un’ampia fetta della politica nostrana, ovvero la paura di una supposta “tecnocrazia” che si realizzerebbe a opera degli scienziati quando “non collaborano”. Ed è qui che casca l’asino. Quello che emerge è il timore della politica – tutta, a destra e a sinistra – di uno dei valori fondamentali (e costituzionalmente garantiti) alla base dell’indagine scientifica e dello sviluppo culturale della società: la più completa e totale autonomia quando si tratti di indagare il mondo intorno a noi e di esporre i risultati e le teorie che grazie a questa indagine si ottengono. Porre confini, come traspare chiaramente dal discorso della Meloni, in nome dell’etica e dell’interesse sociale, è operazione assolutamente problematica, quando tali confini provengano dall’indicazione della politica (e non parliamo poi del ruolo della Chiesa, cui il presidente del Consiglio ha ripetutamente accennato); perché il politico o il governo di turno sono, per definizione, portatori di interessi temporanei, storici e specifici, che poco hanno a che vedere con gli scopi dell’indagine scientifica e che possono facilmente confliggere con le indicazioni generali circa lo stato delle cose o le previsioni sugli eventi futuri che dalla ricerca derivano, come hanno plasticamente dimostrato la stessa Meloni e molta parte della politica durante la recente crisi pandemica.
Dunque, ben venga l’appello alla collaborazione fra scienza e governo. Non però nel senso di limiti da imporre e di un soffocante abbraccio del potere all’accademia (abbraccio cui bisogna tuttavia dire molti accademici resistono davvero poco), ma nel senso di recepire le indicazioni circa lo stato delle cose e la realtà dal mondo della ricerca scientifica, per poi utilizzare tali dati nel modo migliore per raggiungere obiettivi che in autonomia e legittimamente ci si pone in politica.
Perché questo avvenga, tuttavia, servono sedi opportune, la cui composizione e il cui funzionamento non siano oggetto di influenza da parte del governo e dei politici di turno, ma che abbiano quell’autonomia necessariamente garantita da processi di selezione autonomi e da un mandato indipendente. Non basta partecipare a questo o a quell’evento organizzato da una o l’altra delle numerose associazioni scientifiche del nostro paese, ma bisogna pensare a un organo di consulenza scientifica stabile – l’equivalente per esempio di un ufficio per le politiche scientifiche e tecnologiche USA – selezionato al di fuori dell’influenza politica e con un mandato e una durata stabiliti dalla comunità scientifica nazionale, non dalla politica.
Se davvero si vuole ascoltare la voce degli scienziati, questa deve essere del tutto indipendente e anche se del caso contraria a quella dei politici; altrimenti, finisce per rappresentarne un’eco inutile, che ha il solo scopo di provvedere un ulteriore bias di conferma pericoloso e dannoso per il cittadino e la società.
Naturalmente, va ricordato che gli scienziati e gli accademici sono a loro volta ben pronti a battere la grancassa del potere politico, venendo meno al loro ruolo e optando per il ben più conveniente lavoro di “intellettuale organico”, per usare un’immagine cara a una certa area politica; per questo motivo, è bene che se davvero una collaborazione fra scienza e politica si vuole avere, una collaborazione che sia utile e sana intendo, non basta tenere a bada la politica, ma è necessario anche stare molto attenti all’eccessiva e volenterosa contiguità di fin troppa parte di quella che dovrebbe essere una libera comunità con il potente al governo, scegliendo quindi anche al di fuori del nostro paese esperti che diano garanzie di minor conflitto di interessi e cercando di evitare mandati eterni e ciclici ritorni nell’ipotetico ufficio che abbiamo delineato, pena una forma di volontario asservimento che se vogliamo è ancora peggiore di quello forzoso.
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