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L'analisi

Davanti alle catastrofi meteoclimatiche l'unica soluzione è fare comunità

Giulio Boccaletti

Quando i disastri diventano normalità occorre interrogarsi su cosa fare, partendo da tre assunti: il nostro territorio è fragile, la statistica sul clima sta cambiando e noi, come umani, siamo sempre più vulnerabili. Ecco alcune soluzioni per problemi da risolvere in chiave sovranazionale

Da Cogne alla Sicilia, la sequenza di eventi meteoclimatici è impressionante. Sono ormai anni che facciamo la cronaca di emergenze. Siccità distruttive: Il Po, la Sardegna. Inondazioni catastrofiche: Senigallia, Ischia, Romagna, Veneto, Toscana. A volte, come quest’anno, parliamo sia delle une che delle altre, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta. Il repertorio di cosa dire non è ampio. Vicinanza per le perdite, cordoglio per le sempre troppe vittime. C’è il rischio reale di assuefazione. I disastri diventano normalità, le analisi sulle cause, ripetitive. Siamo spettatori di un deterioramento di casa nostra.
 

Non siamo impotenti, però. Voglio parlare di cosa fare, ma per onore di cronaca vanno ripetuti alcuni fatti. Primo, il nostro territorio è fragile. In Italia questi eventi succedono più frequentemente che non in Francia o Germania perché abbiamo un territorio più complicato, fatto di terre marginali e paesaggi montani instabili. Secondo, la statistica meteoclimatica sta cambiando. Chiedersi quali di questi eventi sia specificamente dovuto ai cambiamenti climatici prodotti dalle nostre emissioni ha poco senso. Ma che la statistica non sia più stazionaria è evidente. Terzo, siamo sempre più vulnerabili. Infrastrutture disegnate per un’economia e un clima diversi, poca capacità di investimento, una popolazione che invecchia, ci rendono sempre più indifesi a fronte di cambiamenti in accelerazione. Questo è lo stato delle cose.
 

È evidente che perché le cose non peggiorino ulteriormente dobbiamo lavorare perché l’economia globale riduca le emissioni a zero. Non dipende solo da noi, ma dobbiamo fare la nostra parte. In ogni caso, immaginarsi di evitare una transizione industriale o di non partecipare all’economia energetica del futuro è come soffiare contro vento. Detto questo, per i prossimi trent’anni siamo più o meno come un treno su binari fissi. Il nostro contesto cambia e fatichiamo a gestirlo. Dobbiamo decidere cosa fare.
 

A fronte di questi rischi ci sono solo tre opzioni: accettarli, farli assorbire da qualcun altro, o mitigarli. Partiamo da quest’ultimo. Per mitigare, bisogna fare investimenti reali. Argini, invasi, cambiamenti nell’urbanizzazione, trasformazione del paesaggio, scelte economiche diverse. Qui la parola d’ordine è: priorità. Non possiamo proteggere tutto da ogni cosa. Dobbiamo scegliere cosa ci possiamo permettere e dove concentrarci.
 

Tutto il mondo sviluppato è nelle stesse condizioni. Passo tempo nel Regno Unito. Il Galles è pieno di paesini costieri troppo piccoli, su coste troppo lunghe, per giustificare enormi investimenti di difesa. Nel lungo periodo, l’unica opzione per quelle comunità è la migrazione, prima che il mare si mangi casa loro. Ma è difficile immaginarsi una piattaforma politica basata su una simile proposta. E così, rimangono lì senza fare nulla, nell’illusione di fermare il mare con le mani.
 

In Italia, lo spopolamento dei paesi periferici è già in corso da tempo per ragioni demografiche ed economiche – è uno dei motivi per i quali la natura si sta riprendendo le zone montane. Ma rimane il fatto che in molti casi, piccole comunità solitarie non avranno mai le risorse economiche per difendersi da sole e, se non sono sufficientemente strategiche per il paese, non hanno grandi alternative. È una discussione difficile – impossibile per i cittadini di quei luoghi – ma va affrontata. E non è una discussione scientifica. Non ci sono esperti che tengano. Si tratta di questione politica.
 

Abbiamo deciso di spendere circa sei miliardi di euro per costruire il Mose e difendere Venezia. Evidentemente quei 50 chilometri di costa lagunare ci importano più degli altri 8.300 chilometri di costa italiana. Se fossimo disposti a fare investimenti simili su tutta la costa dovremmo investire metà del Pil italiano. È legittimo e necessario fare scelte. Non solo perché situazioni diverse costano cifre diverse, ma semplicemente perché non abbiamo le risorse per fare tutto. Quindi, cosa ci importa proteggere?
 

C’è poi l’accettazione del rischio, strada maestra per moltissime comunità che non possono fare altro (e badate che si tratta di tutti se parliamo dei rischi più estremi – dato qualsiasi livello di difese, esiste sempre un rischio marginale inevitabile). Questa strada non significa però non fare nulla. Si tratta di imparare attivamente a convivere con i rischi. Le persone spesso muoiono non perché succedono i disastri, ma perché a fronte di questi ultimi, ci si comporta in maniera imprudente. Se arriva la piena, evitiamo di spostare la macchina. Qui giocano un ruolo fondamentale scuola, Protezione civile, e le istituzioni di ogni grado. Soprattutto noi, cittadini. Dobbiamo essere i responsabili di noi stessi, coscienti dei rischi e di cosa fare se succede qualcosa.
 

Poi c’è la terza via. Spostare i rischi su altri significa assicurarsi: mutualizzare le perdite per ripartire. Si è già cominciato. Gli obblighi assicurativi stanno giustamente aumentando, anche se il nanismo industriale tipico dell’Italia delle piccole imprese non aiuta, rendendo difficile permettersi i costi assicurativi. L’ignoranza del territorio poi porta i residenti a sottostimare rischi che andrebbero assicurati. Ma a fronte di limitate risorse per gli investimenti difensivi, la frontiera per i prossimi anni sarà anche questa.
 

Ma qui, badate, la questione non è esclusiva del mercato delle assicurazioni. Già ora assicuriamo collettivamente le nostre comunità ogniqualvolta lo stato viene chiamato a intervenire con fondi di emergenza per la ricostruzione. Questo però significa lavorare assieme. La frammentazione territoriale alla quale abbiamo un attaccamento storico e un po’ patologico non aiuta perché i rischi materiali legati a eventi meteoclimatici sono geograficamente coerenti e correlati. La popolazione assicurata deve essere sufficientemente grande da rendere la statistica degli eventi prevedibile. Più erratica e dinamica è la statistica degli eventi, più grande deve essere la popolazione coinvolta.
 

Questo pone, di nuovo, una sfida tutta politica. L’integrazione, la cooperazione, il fare comunità sempre più grande sono gli strumenti essenziali della mutualizzazione. In parole povere, gestire i rischi ci spingerà sempre di più verso una dimensione nazionale italiana e, in ultima istanza, europea. In un periodo di sempre più frequenti localismi, regionalismi, indipendentismi, isolazionismi, i cambiamenti sul nostro pianeta ci indicano che c’è un’unica vera strada per affrontare i rischi: assieme.

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