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Cattivi scienziati

Dopo la carne coltivata, ecco il burro sintetico

Enrico Bucci

Nuovi, intelligenti, processi di sintesi consentono di ottenere sostituti del burro e di altri prodotti grassi di uso comune senza ricorrere a nessun sistema biologico. I benefici potrebbero essere molti, ma prima di arrivare al consumatore ci sono alcuni alti ostacoli da superare

Molte volte è stato spiegato perché la carne coltivata non è carne sintetica, ma carne derivata dalla crescita di cellule opportune in laboratorio, cellule coltivate così come per molti altri prodotti cui siamo avvezzi – tutti quelli a base di lieviti vari, a esempio.

Tuttavia, non tutti i cibi che noi oggi consumiamo sono fatti di cellule – non tutti, cioè, corrispondono a pezzi di altri organismi viventi o contengono cellule di qualche tipo (se non come contaminante). Pensiamo ai derivati del latte, a esempio, o agli oli vegetali, agli zuccheri, al vino e così via: si tratta in tutti i casi di miscele più o meno complesse, la cui natura però non è quella di un tessuto animale o vegetale, né di un prodotto il cui costituente indispensabile consista in cellule.

La domanda che, a questo punto, ci si potrebbe porre è la seguente: potremmo davvero sostituire questo tipo di alimenti con veri prodotti di sintesi – cioè non derivanti dalla coltivazione di alcunchè, nemmeno di cellule – con caratteristiche identiche o molto simili alle loro controparti tradizionali? Il primo di questi prodotti è stato realizzato, anche se, per i motivi che vedremo più avanti, è ancora relativamente lontano dal mercato.

In particolare, la start-up statunitense Savor ha creato un burro a partire da opportune fonti di carbonio, con un sistema termochimico che non richiede nessuna trasformazione biologica, ma solo una serie di reazioni ben controllate.

Il burro in questione può essere derivato dal carbonio contenuto nel carbone, nel metano o nell'anidride carbonica. L’industria petrolchimica utilizza tali input per creare syngas – una miscela di monossido di carbonio e idrogeno – che viene poi trasformato in idrocarburi a catena lunga in quello che viene chiamato processo Fischer-Tropsch. Se invece di utilizzare questi idrocarburi per ottenere combustibili o plastiche si procede alla loro ossigenazione, si ottengono acidi grassi; facendo reagire questi con un alcool chiamato glicerolo (quello che è presente anche nel vino, per intenderci) si formano trigliceridi, che sono fra i principali composti chimici presenti nei grassi che consumiamo. Per trasformarli in burro, Savor aggiunge acqua e un emulsionante, prima di includere beta carotene per il colore e olio di rosmarino per aggiungere un sapore "erboso".

In attesa di provare direttamente questo burro, e fidandoci degli chef che lo stanno testando, possiamo considerare i vantaggi di un approccio alla sintesi totale dei grassi alimentari e dei prodotti derivati grazie a un’analisi da poco pubblicata su Nature Sustainability: l’impronta di carbonio per i prodotti di sintesi è meno della metà dei loro equivalenti tradizionali, e può ulteriormente essere ridotta se si usano energie pulite per alimentare il processo. Oltre a diminuire le emissioni, se il processo sarà alimentato catturando anidride carbonica dall’atmosfera, come si sta tentando di fare nei più svariati settori, l’impatto sul cambiamento climatico in corso sarà ovviamente ancora più pronunciato. Questo senza contare il risparmio di terra e acqua da dedicare al pascolo o il risparmio di foresta se si sostituiscono prodotti come l’olio di cocco o quello di palma, per ottenere i quali la foresta tropicale è rimpiazzata dalle corrispondenti coltivazioni.

Un simile cibo di sintesi, producibile senza agricoltura o zootecnica, potrebbe evidentemente avere molti vantaggi, soprattutto se la filiera sarà alimentata da energia rinnovabile; tuttavia, vi sono alcuni punti che rendono il traguardo ancora parecchio lontano.

Il primo è il prezzo di mercato, che per tutti i processi in questione è piuttosto alto, insieme alle dinamiche produttive, che possono affondare anche i sogni migliori, come abbiamo già visto a proposito della carne coltivata a Singapore su queste pagine.

Il secondo punto è quello che riguarda la cautela per quello che riguarda gli effetti sulla salute. Errori clamorosi – come l’uso estensivo dei grassi idrogenati in trans, prima di valutare a fondo l’impatto sulla salute di molecole nuove  – potrebbero essere evitati, imitando strettamente la natura e la composizione chimica ciò che già consumiamo; ma in ogni caso, la contaminazione di un prodotto alimentare con composti chimici ottenuti insieme a quelli desiderati, composti di cui spesso si sa poco, andrebbe rigorosamente controllata, il che naturalmente può portare a ostacoli significativi nella produzione

Il terzo punto, quello a mio giudizio più difficile da affrontare, è la barriera culturale: ammesso che si riesca a ottenere prodotti il cui gusto sia accettato dal consumatore (cosa questa più facile di quanto sembri, se consideriamo i numerosi sostituti vegetali di alimenti di origine animale), la resistenza verso la “chimica” così tenacemente seminata dalla narrazione oggi dominante a partire dai danni creati da alcuni prodotti, è un ostacolo enorme. Sareste pronti a imburrare una fetta di pane con un prodotto derivato dall’industria petrolchimica? È ovvio che persino la terminologia deve cambiare, prima che un simile prodotto possa essere accettato.

I processi di produzione alimentare che stiamo inventando potrebbero davvero avere un notevolissimo impatto positivo sul nostro pianeta, sulla vita degli animali allevati e anche sulla nostra dieta; è stupido rigettare a priori possibili soluzioni ai molti problemi che crea l’alimentazione di miliardi di esseri umani, magari rifugiandosi in illusorie e dannose fantasie sul “naturale”, ma, al contempo, l’innovazione deve dar la miglior prova possibile, prima di potere essere assunta su larga scala.