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Cattivi scienziati

La chimica (quella vera) nel piatto

Enrico Bucci

L’avversione ai prodotti di sintesi per uso alimentare non tiene conto né del gran numero dei prodotti introdotti più di recente, né del fatto che il grosso di quel che mangiamo contiene prodotti derivati dalla CO2 atmosferica incorporata negli alimenti mediante un processo scoperto meno di un secolo fa

Quando ho presentato le innovazioni che potrebbero consentire di ottenere per sintesi chimica il burro e altri grassi a partire dalla CO2 atmosferica, ho fatto una facile previsione: nonostante ormai i primi prototipi siano stati realizzati, il semplice uso della parola “sintesi chimica” crea un ostacolo di tipo culturale alla diffusione di questi prodotti, nonostante i benefici possibili per ambiente, nutrizione umana e diminuzione degli allevamenti, perché “ammesso che si riesca a ottenere prodotti il cui gusto sia accettato dal consumatore (cosa questa più facile di quanto sembri, se consideriamo i numerosi sostituti vegetali di alimenti di origine animale), la resistenza verso la ‘chimica’ così tenacemente seminata dalla narrazione oggi dominante a partire dai danni creati da alcuni prodotti, è un ostacolo enorme.”

Era una facile previsione, ed è bastato semplicemente descrivere il prodotto innovativo dell’azienda Savor, per scatenare l’immunità culturale così sapientemente indotta dal marketing del “naturale”, del “locale”, della “identità alimentare” (di origine rigorosamente inventata, come è stato sagacemente scritto).

Ai paladini della natura nel piatto, vorrei però fare osservare che c’è ben di peggio rispetto al possibile ottenimento del burro dalla CO2 atmosferica: in realtà, oggi tutti gli zuccheri e gli amidi che consumiamo sono ottenuti dalla medesima fonte, attraverso un complicato, ma efficiente processo chimico scoperto meno di un secolo fa (le prime ricerche iniziarono nel 1946, con la disponibilità di isotopi radioattivi). Sto dicendo che zuccheri e amidi ottenuti da un processo chimico scoperto meno di un secolo fa sono presenti nella farina, nella pasta, nelle creme, nelle confetture e in breve sostanzialmente ovunque, persino nell’alimento degli animali da filiera biologica!

Il burro sintetico della Savor è ottenuto dalla CO2 con il processo Fischer-Tropsch, ma non è ancora sul mercato; l’efficiente e complesso processo che sto per descrivervi è invece usato ogni giorno per produrre quasi tutto quel che mangiamo, tanto noi quanto gli animali di cui ci nutriamo. Questo processo può essere in forma abbreviata riassunto come segue. In una prima reazione, si ottiene a partire dalla CO2 atmosferica l’acido 3-fosfoglicerico, a tre atomi di carbonio; l’accettore della CO2 è il ribulosio-1,5-difosfato, un composto a 5 atomi di carbonio. Si forma poi un β-chetoacido, che si scinde dando due molecole di acido fosfoglicerico; questo è quindi ridotto ad aldeide fosfoglicerica, che è capace d’isomerizzarsi dando fosfodiossiacetone. L’aldeide fosfoglicerica e il fosfodiossiacetone si condensano poi a dare il primo degli zuccheri del processo, ovvero il fruttosio-1,6-difosfato, che è il punto di partenza per poi ottenere saccarosio e amido; parte delle molecole di fruttosio-1,6-difosfato e di fosfodiossiacetone rigenerano l’accettore iniziale di anidride carbonica, cioè il ribulosio-1,5-difosfato.

Il processo è molto complicato, ma bisogna vedere come dalla stessa molecola di CO2 che la Savor utilizza per ottenere gli acidi grassi che servono a formare il burro, qui bisogna procedere fino all’ottenimento di molecole più complesse, i precursori degli zuccheri e degli amidi che mangiamo; è quindi ragionevole che serva una chimica ben più complicata.

Quello che è interessante sapere è che nessuno sarebbe in grado di distinguere una pasta la cui farina derivi dal processo chimico di cui sopra, rispetto a una pasta derivata dal grano, né sulla base del sapore, né sulla base delle qualità organolettiche né in nessun altro modo. Lo stesso dicasi per il pane, per le creme o le confetture o per qualunque altro prodotto alimentare che utilizzi zuccheri di ogni natura o amidi o derivati: il consumatore o lo chef più sofisticato non potranno mai trovare alcuna differenza, e la chimica nel piatto che utilizziamo da sempre non è in alcun modo distinguibile da quello che siamo abituati a considerare un prodotto “naturale”.

E vorrei vedere: il processo chimico scoperto a partire dagli anni 40 del secolo scorso, e di cui vi ho brevemente riassunti i passaggi, è nulla più che la chimica del ciclo di Calvin delle piante – quello che grazie alla fotosintesi produce la base della catena alimentare che sostiene il pianeta.

Quando mangiate una foglia di insalata, quella è “la chimica nel piatto” che state consumando: e siccome posso scommettere che prima di arrivare a questa rivelazione molti avranno provato una reazione di sdegno e ripulsa pari a quella di coloro che si sono scagliati contro il burro ottenuto dalla CO2 atmosferica dall’azienda Savor, salvo poi scoprire che il laboratorio di Calvin è la foglia di una qualunque pianta C3, invito tutti a riflettere su che cosa sia chimico, che cosa sia naturale e come le nostre illusioni costruiscono gli alimenti, così che essi diventano innanzitutto una tradizione culturale, e solo secondariamente un nutrimento. Va bene voler difendere tale tradizione, ma per piacere non raccontando la balla del chimico peggiore del naturale e soprattutto non a scapito dell’ambiente, della salute e della libertà di scegliere fra prodotti non nocivi e non fraudolenti ciò che piace, solo per tutelare alla fine l’interesse economico di pochi o proteggendo un mondo naturale immaginario.  

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