Teste di corvo. Come siamo diventati amici delle cornacchie

Mattia Manoni

Amati da Konrad Lorenz, sono uccelli intelligenti e adattabili, e a volte problematici. Ma il loro legame con l’uomo è ancestrale

Nel nostro immaginario le cornacchie non rivestono un ruolo positivo. Se il cane viene associato alla fedeltà, l’orso alla forza e il leone al coraggio, alla cornacchia è sempre toccata la sfortuna, il mistero o addirittura il grande tabù della morte. Solo da qualche anno questi uccelli sono diventati una presenza abituale nelle città, dove è possibile osservarli nelle piazze o lungo i fiumi, gironzolare attorno ai locali o, alzando lo sguardo, vederli planare sulle nostre teste. E infatti negli ultimi anni è aumentata anche la presenza di informazioni che li riguardano; è facile trovare notizie che riportano comportamenti problematici delle cornacchie nei confronti degli esseri umani (forse troppe notizie, tanto da far pensare che se Hitchcock girasse oggi “Gli uccelli”, lo intitolerebbe “Le cornacchie”), altre che approfondiscono i motivi della loro diffusione e altre ancora che parlano delle capacità che posseggono.  

   
Ma partiamo dall’inizio. Le cornacchie, assieme a corvi, gazze e taccole (ma non solo) appartengono all’ordine dei passeriformi e più specificatamente alla famiglia dei corvidi, animali che la tassonomia ha inserito nella stessa categoria perché condividono caratteristiche comuni. I corvidi infatti sono uccelli per la maggior parte onnivori e generalmente con un piumaggio scuro, in cui difficilmente si distingue il maschio dalla femmina e i giovani dagli adulti. E dalle elevate capacità imitative e di apprendimento. Eccoci qua, dunque; le cornacchie in particolare e i corvidi in generale sono animali intelligenti e adattabili e, probabilmente anche per questo, problematici. Viene in mente qualche altra specie?

 

Gli studi mostrano che i corvidi riescono a beneficiare degli ambienti urbani: covate più numerose, maggior successo nella schiusa

   
Nel 2021 è uscito uno studio intitolato: “Corvids in Urban Environments: A Systematic Global Literature Review” (“Corvidi negli ambienti urbani: una revisione sistematica della letteratura globale”), un lavoro di ampio respiro che cerca di fare chiarezza su questo fenomeno e che riporta molte delle ricerche che sono state eseguite dalla comunità scientifica fino a oggi. I primi studi sull’argomento risalgono agli inizi del secolo scorso ma quasi la metà di quelli presi in considerazione in questa ricerca (in tutto 424) sono stati pubblicati dopo il 2010. Ciò che emerge è che, sebbene non tutti gli studi diano risultati concordanti, la maggior parte evidenzia come i corvidi generalmente riescano a beneficiare degli ambienti urbani; un fenomeno che si traduce in covate anticipate e più numerose, in un maggiore successo nella schiusa delle uova e dell’involo dei pulli (cioè il momento in cui i piccoli lasciano il nido compiendo il loro primo volo). Ciò accade perché se è vero che l’urbanizzazione è fortemente associata alla cementificazione, all’aumento della densità umana, alla frammentazione e alla degradazione degli ambienti naturali, i corvidi, e in Italia in particolare le cornacchie, hanno trovato il modo di sfruttare a loro vantaggio queste condizioni. Come si accennava, questo successo è dovuto all’adattabilità che le caratterizza, cioè alla capacità che hanno di modificare il proprio comportamento in base ai contesti nei quali si trovano, abilità nota come plasticità comportamentale.

 

Messi di fronte a contenitori con acqua sulla quale galleggia del cibo, i corvi capiscono che introdurvi piccole pietre alza il livello del liquido

   
Un esempio riguardo le abilità cognitive dei corvidi viene da uno studio inglese molto noto del 2009 che ha coinvolto quattro corvi. Ciò che i ricercatori hanno scoperto è che, proprio come nella favola di Esopo, gli uccelli, messi di fronte a dei cilindri contenenti acqua sulla quale galleggiava del cibo, riuscivano a capire che per raggiungerlo dovevano introdurre delle piccole pietre, così da innalzare il livello dell’acqua e farlo arrivare a portata di becco. Il video dell’esperimento si può reperire facilmente e quello che si nota è proprio la capacità degli animali di valutare attentamente il da farsi. Infatti, riescono a scegliere il contenitore nel quale il cibo si trova sull’acqua al posto di quello in cui si trova sulla sabbia, il contenitore più stretto rispetto a quello più largo e quello con un livello di acqua maggiore invece di quello in cui il livello di acqua è più basso. Niente male.


Nel terzo libro pubblicato da Adelphi nella collana Animalia, si trova un saggio piuttosto voluminoso e ricco di riferimenti bibliografici scritto da Bernd Heinrich – professore emerito di Biologia all’Università del Vermont – sulla vita dei corvi imperiali nordamericani e intitolato, nientemeno, “La mente del corvo”.  


Nel libro sono presenti molti aneddoti, ipotesi e riflessioni sia dell’autore sia di suoi amici e colleghi, su tutto ciò che ruota attorno all’esistenza di questi uccelli e al loro rapporto con gli esseri umani. “Centinaia di migliaia di anni fa, dall’Africa l’uomo si spostò a nord per seguire mandrie enormi di megalocervi, uri e mammut e con tutta probabilità il corvo imperiale ha accompagnato l’uomo per tutto questo periodo, nutrendosi dei resti degli animali cacciati.”

 

 
Per potersi cibare di carne questi uccelli hanno bisogno di qualcuno che uccida e dilani la preda. Un compito spesso svolto da cacciatori umani

   

Ciò è accaduto perché per potersi cibare di carne questi uccelli hanno bisogno di qualcuno che uccida e dilani la preda: da soli non sono in grado di perforarne i tessuti. E questo compito nell’emisfero boreale viene svolto da lupi e orsi, mentre in quello australe da felini. E chiaramente, ovunque vi sia stato, anche dall’essere umano.  

 
A questo riguardo un passaggio molto interessante ed evocativo è quello riguardante la collaborazione nella caccia tra corvi e inuit, il popolo nativo della zona artica. Questa cooperazione non è affatto scontata e secondo la tradizione avviene solo a seguito di un rituale eseguito da uno sciamano. “Abe Okpik […] mi disse poi che i cacciatori in cerca di caribù sulla terra o di orsi polari sul ghiaccio, alla vista di un corvo guardavano in alto e lo chiamavano a gran voce: ‘Tulugaq, tulugaq, tulugaq’. Una volta che avevano attirato l’attenzione dell’animale, gli gridavano di piroettare in direzione della preda. Se il corvo emetteva per tre volte un richiamo melodioso simile al suono di un gong, i cacciatori seguivano la direzione indicata e uccidevano la preda”. 

 
Sebbene questo racconto possa sembrare fantasioso, nel mondo animale, mondo al quale anche gli esseri umani appartengono, la cooperazione nella caccia (ma non solo) tra specie diverse è un fatto ben noto. Avviene tra coyote e tassi, tra cernie e polpi, tra volpi e manguste; perciò non c’è motivo di credere che non possa avvenire anche tra umani e corvi.  Infatti, nelle pagine conclusive l’autore scrive: “Per migliaia di anni e fino a un secolo fa gli unici esseri umani in quel paesaggio (cioè nell’artico) erano cacciatori in cerca di una preda e i corvi avevano bisogno di loro per sopravvivere. Date queste premesse è possibile che essi abbiano stabilito la connessione tra uomini, caribù e cibo immediatamente.”  

 
In un articolo pubblicato su Science nel 2020, alcuni scienziati tedeschi hanno deciso di utilizzare la parola “coscienza” già nel titolo del loro lavoro: “A neural correlate of sensory consciousness in a corvid bird” (“Un correlato neurale della coscienza sensoriale in un corvide”). Una scelta non da poco, considerando che quello della coscienza è un dominio psicologico piuttosto problematico da definire anche nelle persone. Generalmente, però, con questo termine ci si riferisce alla capacità di poter accedere volontariamente alle esperienze soggettive, quindi di poterle pensare, ricordare e riferire. Un’abilità che a lungo abbiamo attribuito solo a noi stessi, e solo negli ultimi anni anche ad alcuni primati non umani e ad alcuni mammiferi marini.  

 
Fino ad ora l’ipotesi prevalente ha suggerito che le specie che la posseggono (la coscienza) devono questa fortuna alla loro conformazione cerebrale; il cervello, infatti, si è evoluto a strati: quelli inferiori sono stati i primi a svilupparsi e per questo sono implicati nelle funzioni biologiche basilari come il respiro o il battito cardiaco, quelli intermedi si occupano delle emozioni che permettono di relazionarsi con i simili, mentre gli strati che si trovano più in alto mediano le cosiddette “funzioni cognitive di alto livello” come astrazione, linguaggio e, appunto, coscienza. Il fatto è che gli uccelli, essendosi differenziati dai mammiferi 320 milioni di anni fa, non posseggono affatto questo tipo di cervello stratificato e tanto meno gli strati che si trovano in alto. Questo perché il loro è un cervello nucleato, cioè non organizzato in lamine sovrapposte ma in nuclei dislocati su uno stesso piano. Come è possibile, dunque, per quanto li riguarda, parlare di coscienza? Per tentare di rispondere a questa domanda gli scienziati tedeschi hanno addestrato due cornacchie a segnalare tramite dei movimenti della testa di aver visto o meno degli stimoli visivi che apparivano su uno schermo. La loro attività cerebrale veniva registrata grazie a degli elettrodi intracranici inseriti in una parte di cervello nota come pallium. Ciò che è emerso è che l’attività neurale registrata nel pallium conteneva l’informazione che le cornacchie avrebbero poi riferito, cioè di aver visto o meno lo stimolo luminoso; quindi, non semplicemente quello che stavano vedendo ma quello che avrebbero comunicato successivamente. In sostanza, esisteva un’attività cerebrale riguardo gli stimoli visti prima che la consapevolezza di averli percepiti si palesasse tramite le risposte.

 
Mica una gran coscienza, si potrebbe dire. Effettivamente la coscienza sensoriale è considerata una forma piuttosto semplice di coscienza, eppure non è cosa da poco attribuirla ad animali ai quali fino a poco fa non si riconosceva nessuna forma di vissuto mentale. 

 
In pratica, seppure le cornacchie siano ancora distanti dal sommo detto “so di non sapere” pare che abbiano raggiunto il più semplice “so che sto vedendo”.  
Del resto, non è difficile supporlo, specialmente quando le si osserva avvicinarsi a qualcosa che le incuriosisce con la tipica andatura indagatoria e saltellante che assumono quando camminano.

  

Il gesto proprio “commovente” del corvo Roa, amico di Lorenz: “Con una mossa nervosa, quasi angosciata, distoglieva il becco dal mio occhio”

  
L’osservazione del comportamento animale è una disciplina conosciuta come etologia, nata nella prima metà del secolo scorso a opera di Konrad Lorenz, uno scienziato austriaco che ha ricevuto il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973. Lorenz è stato uno zoologo, oggi noto al grande pubblico principalmente per aver scritto un libro intitolato “L’anello di Re Salomone” (Adelphi 1989). E persino lui, fondatore dell’etologia, era affascinato dal repertorio comportamentale e dalle abilità cognitive dei corvidi tanto da avere allevato, per generazioni, intere svolazzanti colonie di taccole. Il libro è una fonte inesauribile di aneddoti personali e di spiegazioni sull’origine e lo scopo dei vari comportamenti animali a cui ha assistito in tutti i decenni nei quali casa sua è stata più un giardino zoologico che una normale abitazione. Tra questi se ne può trovare uno su un corvo imperiale di nome Roa: “Se siete amici di un corvo, non gli salterà mai in mente di beccare il vostro occhio, l’occhio del suo amico uomo, più di quanto non pensi di beccare l’occhio di un suo simile. Quando il corvo imperiale Roa era appollaiato sul mio braccio e io accostavo intenzionalmente il mio viso al suo becco, in modo che il mio occhio aperto veniva a trovarsi vicino a quella punta adunca e pericolosa, Roa faceva un gesto proprio commovente: con una mossa nervosa, quasi angosciata, distoglieva il becco dal mio occhio, così come un padre che si sta rasando bada a che la lama del rasoio stia ben lontana dalle manine goffe della sua figlioletta che vogliono afferrarla”. La fortuna di potersi dire amico di un corvo, chi non la vorrebbe?

   
Dato che alcuni corvidi possono essere considerati animali sinantropici, cioè animali che sfruttano la vicinanza agli esseri umani per vivere, la loro presenza nelle nostre città potrebbe essere intesa anche, per così dire, come un’esperienza di coabitazione interspecifica. Del resto, l’idea di poter essere gli unici abitanti di un determinato spazio o di essere riusciti ad addomesticare tutte le forme di vita animali e vegetali che vivono intorno a noi non è granché realistica. Certo, ben vengano gli strumenti pensati per limitare la presenza di animali sgradevoli, pericolosi o infestanti come formiche, ratti, zanzare, nutrie, scarafaggi o corvidi stessi, però, evidentemente, non possiamo occuparci di loro (degli animali) solamente per trarne profitto o per cibarcene. Ma al di là di questo, è probabile che alcuni dei problemi che questi animali causano ci parlano di qualcosa da dover ripensare più nei nostri comportamenti che nei loro.

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