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L'ambiente non è un'opinione. Fatti e numeri contro le fake news verdi

Non è vero che l'aria è sempre più irrespirabile: è vero proprio il contrario. E l'Italia non ha mai avuto così tanti alberi. La crescita della ricchezza produce un ambiente più resiliente

di Jacopo Giliberto e Chicco Testa

Contro integralisti, catastrofisti e nostalgici di un passato mai esistito. Aria, boschi, fonti rinnovabili, inquinamento: le cose vanno molto meglio di quanto racconti l’ecologista collettivo. Perché un umile riformismo ambientale è più efficace di un perenne allarmismo

“Mai rimpiangere, mai lamentarsi” potrebbe essere un buono slogan per una visione costruttiva del futuro del mondo. Soprattutto per una visione utile e non inutilmente distruttiva. In ogni caso l’esatto contrario della cultura che anima quell’insieme di pensieri e di credenze  da cui è ormai costituita buona parte del pensiero ambientalista e non solo in Italia. Le grandi leve che ne formano l’ossatura sono essenzialmente due. Una visione catastrofista del futuro: se non fate come diciamo noi le cose andranno sempre peggio e il mondo finirà. E il bello è che anche quando il mondo fa ciò che gli ambientalisti si aspettano e le cose migliorano questa visione non viene mai meno. Perché, e questa è la seconda leva, hanno bisogno di produrre emozioni negative, che sono la vera leva del consenso. La paura e le cattive notizie sono due argomenti potenti. Le buone notizie, le cose che cambiano migliorando paradossalmente interessano a pochi. Anzi, diciamo meglio, sono date per scontate, acquisite e mai più da mettere in discussione. Alcune associazioni ambientaliste, Greenpeace su tutte, al di là delle apparenze e dei buoni sentimenti che spargono a piene mani, sono in realtà agenzie di comunicazione che fanno del marketing delle emozioni negative la loro ragione sociale. Grazie alle quali raccolgono fondi ingenti che servono fondamentalmente a mantenere in vita una struttura professionale che si auto seleziona. Democrazia associativa: zero. Solo cooptazione dall’alto e misurazione dell’efficacia sulla base della quantità di fondi raccolti. E qualche volta nel passato anche investiti in attività finanziarie speculative.

   

Una parte del pessimismo conservativo è dovuto anche allo sguardo misoneista rivolto verso un passato immaginario e mai esistito, verso quell’infanzia dell’umanità in cui tutto era bello, magico e naturale. Ma per chi ha la pazienza di guardare le cose nella loro totalità e non fermarsi a qualche dato puntuale che viene puntualmente estratto da insiemi molto più complessi all’unico scopo di intimorire e creare stupore negativo, spesso le cose stanno molto meglio del racconto somministrato dall’ambientalista collettivo.

 
Per esempio, tanto per parlare di cose che sembrano scontate nelle narrazioni allarmiste, viene nascosto  il fatto che nonostante il cambiamento del clima stanno diminuendo gli incendi delle foreste (Vivek K. Arora e Joe R. Melton, “Reduction in global area burned and wildfire emissions since 1930s enhances carbon uptake by land”, pubblicato da Nature il 17 aprile 2018) o il fatto che la Grande barriera corallina dal 1986 non è mai stata così bella e pulsante di vita come nel 2024; per accreditare la visione disfattista di un presente infelice non viene nemmeno più pubblicato l’indice dello stato di salute complessivo dell’intera barriera corallina. Ma secondo la rivista Nature, una delle più serie nel settore scientifico, nel 2024 le barriere coralline hanno completamente recuperato le perdite degli anni precedenti e addirittura raggiunto la massima estensione.
    

Avrete allo stesso modo sicuramente letto di come tornadi, alluvioni, trombe d’aria aumentino di frequenza e producono danni sempre maggiori. Solo che non è vero. Secondo uno studio molto approfondito dell’Università cattolica di Lovanio i danni provocati da fenomeni atmosferici estremi sono in costante e drastica diminuzione se rapportati alla ricchezza complessiva. Il tasso di mortalità per milioni di persone è inferiore all’1 per cento e idem per i danni materiali in rapporto al pil totale. Unico dato che interessa perché in cifre assolute è evidente che un mondo popolato da otto miliardi di persone viene maggiormente danneggiato in caso di eventi calamitosi di un modo assai meno popolato. E perché questo avviene? Perché la crescita della ricchezza produce un ambiente più resiliente, siamo molto più in grado di prevenire e di proteggerci, abbiamo edifici meglio costruiti e misure di. protezione molto più efficaci.

    
Oppure, per venire a casa nostra, i comitati sedicenti ambientalisti indicano nella nave rigassificatrice Italis Lng ormeggiata in porto a Piombino la causa del crollo dei traffici navali, che invece aumentano e nel primo semestre dell’anno la movimentazione complessiva del porto è cresciuta del 52,2 per cento. O della pelle irritata di alcuni bagnanti, ma no, non era la nave bensì la Pelagia noctiluca: meduse portate dalla corrente.

     

L’aria sempre più respirabile

Non è vero che l’aria è sempre più irrespirabile. E’ vero esattamente il contrario: l’aria che respiriamo è sempre più pulita. L’aria delle città italiane nel 2024 è migliore dell’aria del 2023 che è migliore dell’aria del 2022 e così via. Il 2023 per le regioni dell’Alta Italia è stato l’anno più balsamico di sempre. Da decenni le centraline di rilevamento segnano che lo smog è in calo nelle grandi pianure padano-venete, ogni anno sempre meglio. Non ha avuto effetto la paralisi virale 2020 del traffico, quando naso all’aria molti asserivano che, “vedi? senza traffico l’aria è più pulita”. Invece poi il traffico ha ripreso ad accelerare furibondo sulle strade e al contrario lo smog invece di risalire è sceso ancora di più. Sono sempre più rarefatti l’ossido di azoto (NO2) e le polveri fini (Pm10) e finissime (Pm2,5) che aleggiano in microgrammi in ogni metro cubo d’aria. Le agenzie regionali di protezione dell’ambiente, quelle Arpa il cui olfatto scientifico fiuta l’aria che respiriamo, hanno certificato che l’anno scorso è stato (parola all’Arpa Lombardia) “l’anno migliore da quando si è avviata la misura della qualità dell’aria”. Da Bologna assevera l’Arpa: “I valori medi annuali delle polveri, Pm10 e Pm2,5, risultano ampiamente entro i limiti di legge”. E così in Veneto, Marche, Toscana eccetera. Negli inverni degli anni 70 a Torino si respiravano 700-800 microgrammi di anidride solforosa per ogni metro cubo d’aria, a Milano il tasso annuo medio era sui 300 microgrammi; il 15 agosto 2024 le centraline torinesi e milanesi erano sotto quei 5 microgrammi di sensibilità entro la quale i rilevatori non riescono a percepire l’inquinante. 
    

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I morti di freddo

Si muore molto di più di freddo che di caldo. Il riscaldamento climatico risparmia vite, salva molte più persone di quante non ne uccida. Come ogni estate, nelle scorse settimane sono state pubblicate stime ipotetiche di quante vittime abbia prodotto il caldo. D’obbligo il tono asseverativo: “In Europa più di 47 mila morti per il caldo”, e “l’Italia con 12.743 morti è il paese con più decessi”. Già nel 2022 erano stati attribuiti in Europa 60 mila morti per colpa del caldo. Però il freddo uccide 30 volte di più del caldo. Nel mondo, dal 2000 al 2019 i decessi dovuti al caldo sono aumentati di 116 mila, ahinoi, ma quelli dovuti al freddo sono crollati di -283 mila: la terribile contabilità in partita doppia dei vivi e dei morti certifica che il riscaldamento del clima ha salvato 166 mila esseri umani. Lo dice lo studio di Qi Zhao, Yuming Guo, Tingting Ye, Antonio Gasparrini, Shilu Tong, Ala Overcenco et al. pubblicato da The Lancet (“Global, regional, and national burden of mortality associated with non-optimal ambient temperatures from 2000 to 2019: a three-stage modelling study”), secondo i cui risultati le temperature invivibili hanno ucciso 5 milioni di persone nel mondo, di cui il 95 per cento sono da freddo, pari al 9,4 per cento di tutte le morti (lo 0,9 per cento di tutti i decessi invece è da caldo). Dal 2000 al 2019 la mortalità da freddo è diminuita dello 0,51 per cento, quella da caldo è cresciuta dello 0,21. Si concentra sulle sole città europee un altro studio pubblicato da The Lancet (Masselot et al.: “Excess mortality attributed to heat and cold: a health impact assessment study in 854 cities in Europe”): nelle città europee i morti correlati al freddo sono circa 200 mila, al caldo sono circa 20 mila. Il riscaldamento climatico salva la vita.

   

Mai così tanti boschi in Italia

I satelliti artificiali hanno censito sull’intero pianeta tremila miliardi di alberi. La meccanizzazione dell’agricoltura, che richiede molto meno spazio per avere raccolti molto più abbondanti, ha liberato dalla schiavitù della zappa spaccaschiena, dell’erpice e dell’aratro i terreni difficili da coltivare, i quali stanno tornando alla natura. L’Italia non ha mai avuto così tanti alberi, forse ce n’erano di più solamente ai tempi delle guerre bizantino-gotiche. La necessità di terre da seminare e il bisogno di legname per costruire e per riscaldare hanno reso calva l’Italia per più di mille anni; solamente di recente il bosco e i suoi animali stanno riconquistando quelli che prima erano pascoli, orti e vigneti. Non è un caso se gli animali selvatici sono sempre più vicini alle abitazioni. Le fotografie in bianco-e-nero dei “gran premi della montagna” con campioni del ciclismo come Binda Guerra Coppi e Bartali mostrano sulle Alpi e sugli Appennini panorami calvi dove oggi ci sono abetaie imponenti e faggete fittissime. Ogni anno il bosco si riprende 58 mila ettari di territorio abbandonato dall’uomo. Stando all’ultima rilevazione dell’Inventario nazionale delle foreste e dei serbatoi forestali di carbonio, un censimento realizzato ogni dieci anni dal Crea e dai carabinieri forestali, in Italia i boschi sono arrivati a ricoprire oltre 11 milioni di ettari, pari al 36,7 per cento del territorio, per un totale di oltre 12 miliardi di alberi, pari a 200 alberi per ciascun cittadino. La superficie boschiva è aumentata in 10 anni di circa 587 mila ettari. In testa per foreste sono Sardegna, Toscana, Piemonte e Lombardia; in testa per crescita di superficie boscata sono Molise, Sicilia e Campania e in tutte le regioni i boschi sono in crescita. Fra le città, dice l’Istat, Milano è pienissima di alberi, prima in Italia con 465.521 alberi, seguita da Roma (312.614) e Venezia (307.042 alberi). Protestava la Legambiente nel rapporto Foreste 2023: “Numeri insufficienti per il raggiungimento degli obiettivi della Strategia dell’Ue sulla biodiversità di piantare 3 miliardi di alberi entro il 2030 e dell’obiettivo 11 dell’Agenda Onu di città più sostenibili e inclusive. Il paese in ritardo anche sulla  pianificazione e la gestione sostenibile delle foreste, la valorizzazione delle filiere e delle produzioni made in Italy, la prevenzione degli incendi boschivi”, i quali incendi (va ricordato) sono in calo.


La stessa cosa succede un po’ in tutto il mondo da quando i sistemi di rilevamento satellitare sono in grado di mappare con discreta esattezza l’estensione di boschi e foreste. E, secondo uno studio pubblicato da Yale Environment, la causa sarebbe da ricercare nella migliore efficacia dei processi di fotosintesi grazie alla maggiore concentrazione di CO2 in atmosfera. 

   

I 30 all’ora inquinano un botto

L’obbligo del limite dei 30 all’ora nasce dalla richiesta dei ciclisti-che-odiano-le-auto, poiché quella è la velocità cui pedalano i ciclisti allenati, e solo a loro giova (è ugualmente pericolosissima per i pedoni, ad esempio), e per giustificarla vengono addotte motivazioni ambientali. In realtà a 30 chilometri all’ora le emissioni dei veicoli con motore termico aumentano rispetto ai 50 chilometri all’ora. Nel maggio 2018 Maria Vittoria Prati, bravissima scienziata dell’Istituto dei Motori del Cnr – cui va un affettuoso ricordo; morì un anno fa in un incendio inestinguibile innescato mentre sperimentava il retrofit elettrico di un’auto commerciale – aveva pubblicato lo studio “Valutazione delle emissioni del parco circolante in Italia”. Secondo la ricerca, il minimo di emissioni inquinanti per auto a benzina si ha intorno ai 50 chilometri l’ora, mentre per i diesel intorno ai 70. Tra 0 e 30 chilometri l’ora le emissioni aumentano moltissimo: per i motori a benzina del 50 per cento e per i diesel fino al 500 per cento.

  

Il glifosate che non inquina

Gli ambientalisti italiani hanno fatto della lotta contro il glifosate un punto ricorrente. Le api e altri insetti impollinatori muoiono per colpa dl glifosate. In realtà le api diminuiscono perché allevarle non rende niente, il miele viene venduto a prezzi da sconto e il lavoro è tanto. E le acque inquinate dal terribile gliofosate?

 
Tutta colpa del detersivo. E’ quello, il detersivo e non il glifosate, a impestare l’acqua dei fiumi. L’odiato glifosate fra tutti gli erbicidi commerciali è ancora quello più apprezzato dagli esperti perché vanta la minore tossicità, la migliore efficacia, l’assenza di esclusive brevettuali, la più lunga esperienza d’uso, il bassissimo impatto ambientale e il fatto che è un apprezzato alimento per i batteri del terreno i quali se lo mangiano felici quando, dalle radici delle piante trattate, il composto passa nel terreno. Eppure nei fiumi si ritrovano tracce di acido aminometilfosfonico (aminomethylphosphonic acid), riassunto con la sigla Ampa. L’Ampa sarebbe il “metabolita” del glifosate, cioè sarebbe ciò che resta dopo la sua degradazione nel terreno. Dicono i contestatori: non è vero che il glifosate viene digerito dai batteri del terreno: finisce nei fiumi contaminandoli sotto forma di Ampa. Ora arrivano due ricerche. La prima, canadese, “Impacts of Cropping Systems on Glyphosate and Aminomethylphosphonic Acid Contents and Microbial Community in Field Crop Soils in Québec (Canada)”, conferma che i batteri del suolo divorano a quattro palmenti il glifosate e non ne sono danneggiati né microrganismi né qualità dei terreni; l’altra ricerca, tedesca, “Glyphosate contamination in European rivers not from herbicide application?”, dimostra che l’Ampa trovato nei fiumi e nei corsi d’acqua non viene dal glifosate bensì è un metabolita dei detergenti disciolti in acqua dalle attività di lavaggio dei tessuti.
      

I broccoli nel politene

Al supermercato i broccoli spesso sono avvolti a uno a uno in un velo di politene, la comune plastica da imballaggio. Che schifo, dicono – storcendo il labbruzzo ecologico – le mammine consapevoli e i paparini informati. L’imballaggio serve a conservare l’alimento in modo sterile, a evitare che venga contaminato nei magazzini da roditori oppure sullo scaffale dagli sputacchi dei vecchi tossicolosi, a impedire che si disperda durante il trasporto, a fare in modo che duri di più senza irrancidire dopo pochi giorni, ma nel caso del broccolo l’imballaggio ha anche un valore simbolico raccontato qualche anno fa nell’articolo “Benedetta plastica” dal chimico e divulgatore Dario Bressanini. La parte del broccolo che viene mangiata è il fiore e, dopo che viene reciso, il fiore del broccolo continua il suo ciclo vitale ingiallendo e sfiorendo nel volgere i cinque giorni, dopo i quali è immangiabile. Dal momento in cui il produttore recide il broccolo al momento in cui (distribuzione, scaffale, acquisto e infine frigorifero del consumatore) viene spadellato, il tempo per il suo uso e consumo è molto ridotto. Uno o due giorni. Troppi broccoli avariati finiscono nell’immondizia. Nel bidone del rifiuto organico, mi raccomando. Ma se viene avvolto in un foglio di plastica trasparente, diceva Bressanini, quel broccolo rimane commestibile non pochi giorni bensì circa tre settimane, una ventina di giorni. Lo stesso concetto del broccolo di Bressanini vale per il prosciutto, per il pane, per la carne, per la marmellata e così via. Se confezionati, i prodotti sono al riparo dalla contaminazione di spore, muffe, salmonelle, listerie e inquinanti biologici o chimici, ma soprattutto durano di più nel frigorifero che è il fulcro della vita nella società di oggi. La società è composta da madri sole con figli; da persone con lavori temporanei in città lontane; da coppie giovani con contratti provvisori e redditi limitati; da persone pensionate; da lavori che costringono a spostamenti frequenti. E’ una società costretta ad acquistare gli alimenti non più spesso di una o due volte la settimana; una società che non può consentirsi il lusso di gettare nel bidone del rifiuto organico i cibi avariati. Il cibo fresco, biologico e non sterile è buono e gustoso, è anche più costoso. E’ il cibo fresco e cucinato ogni giorno che lo sguardo rivolto verso un passato immaginario e mai esistito ricorda in quell’infanzia in cui tutto era bello, magico e naturale, e la spesa alimentare veniva fatta tutti i giorni, e una persona in famiglia cucinava tutti i giorni, e questa è la società rivolta al passato che sognano costoro, una società in cui una persona era costretta alla servitù quotidiana di acquistare ogni giorno e preparare il cibo per tutta la famiglia, e quella persona costretta a questa schiavitù era una, una persona specifica. Una persona. Sappiamo a chi la società costringeva e costringe in questa servitù di genere. Questa è la società del passato immaginario cui vogliono riportarvi. E poi, tanto per cambiare, l’Italia ha una meravigliosa industria degli imballaggi.

   

Il falso mito del chilometro zero

Il chilometro zero è un altro dei miti controproducenti che per altro cozzano contro gli interessi italiani. La globalizzazione del cibo oltre che a contribuire a migliorare e variare la dieta di miliardi di persone ha consentito all’Italia di aumentare  il suo export alimentare che risulta uno degli elementi più positivi della bilancia commerciale. Un conto è la valorizzazione di produzioni locali, anche di nicchia, un conto è pretendere che le cipolle di Tropea o il lardo di Colonnata siano consumati in loco. Al contrario una volta affermatisi hanno bisogno di mercati più grandi di quello nazionale. Come è accaduto per il vino per il quale in qualche anno abbiamo battuto anche la Francia per volumi venduti  e esportati. Purtroppo non ancora per fatturato grazie al premio nei prezzi di cui godono i vini francesi. Ma c’è tempo per migliorare. Il chilometro zero al contrario ha dato  la giustificazione alla cultura reazionaria della Coldiretti e a parole d’ordine prive di ogni significato pratico  come il “sovranismo alimentare”. Non stupisce che parole d’ordine suggestive ma perfettamente inutili affascinino anche la sinistra della Ztl, dimentica del fatto che le esportazioni alimentari costituiscono una delle poche voci in attivo di molti paesi poveri. Quando la Cina, come minaccia, metterà veramente dazi sui formaggi e sui vini italiani capiremo i danni del sovranismo e del Km zero.


Un’altra potenziale eccellenza italiana è stata penalizzata per decenni da questa cultura del poveraccismo. La ricerca sul miglioramento genetico delle piante, i famigerati Ogm, che importiamo massicciamente per esempio come mangimi di soia per bovini e maiali è stata criminalizzata fino al punto di distruggere le poche coltivazioni sperimentali presenti in Italia. Questo a fronte di università e ricercatori potenzialmente all’avanguardia e al fatto che senza miglioramenti genetici culture fondamentali per l’Italia come la vigna sono minacciate da malattie continue e necessitano di un uso sproporzionato di pesticidi tradizionali. Ora il vento sembra cambiato, ma intanto anni e anni sono stati persi. 

   

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L’energia e le fonti rinnovabili

C’è infine il capitolo dell’energia. Grazie a due grandi aziende italiane, Eni e Snam, il nostro paese ha superato senza danni irreparabili la crisi post guerra Ucraina. Eni ha dato una mano fondamentale nel trovare fonti alternative di rifornimento del gas e Snam è riuscita, nonostante le opposizioni pseudo ambientaliste a mettere in funzione il gassificatore di Piombino e presto quello di fronte a Ravenna. Un successo non usuale  per un paese dalle lungaggini burocratiche note. Ma Eni e Snam, soprattutto la prima che recentemente dopo solo 15 anni è riuscita ad avere un permesso di estrazione in Sicilia che ridurrà la dipendenza italiana dal gas, sono le vere bestie nere di molti ambientalisti, secondo i quali dovremmo fare a meno delle fonti fossili, da cui l’Italia  dipende per circa l’80 per cento del suo fabbisogno, da domani mattina. Solo le rinnovabili, incerte e intermittenti, dovrebbero rifornire di energia un paese industriale, come l’Italia. Ma le rinnovabili presentano  alcune limitazioni note. Intermittenza e contemporaneità. Ci sono quando ci sono sole e vento e quando ci sono sole e vento producono tutte insieme e non sono programmabili.  Facciamo come in Germania, si dice, dimenticando che la Germania presenta un rapporto fra energia prodotta e emissioni climalteranti fra i più alti in Europa e superiore a quello italiano. La quale povera Italia oggi produce comunque più del 50 per cento della sua energia elettrica  con le rinnovabili e ha investito dal 2010 a oggi più di 150  miliardi  in incentivi, destinati a diventare 200 a fine corsa. Più una miriade di ulteriori contributi  fra cui spicca il disastro del Superbounus 110 per cento che ha impiombato i conti italiani per i prossimi 10 anni in cambio di modestissimi risparmi di energia. Ma è ancora difeso da un ambientalismo assolutista al quale dei conti e del debito che l’Italia lascia in eredità alle generazioni che arrivano nulla importa. 
Nonostante tutto, questo nostro maltrattato paese non ha fatto per niente male. Ha ridotto drasticamente l’inquinamento atmosferico e migliorato la qualità delle acque, potenziato le fonti energetiche pulite, incrementato il patrimonio boschivo, la biodiversità e la vita selvatica, migliorato la qualità dell’alimentazione e protetto nonostante tutto in modo accettabile il suo patrimonio culturale. Viene considerato uno dei paesi più belli al mondo e sicuramente uno dei più longevi. I problemi sono ancora tanti e facilmente individuabili e, con un po’ di organizzazione e buona volontà, anche risolvibili o per lo meno attenuati. Purché, come è avvenuto nei momenti migliori, un umile riformismo ambientale prenda il posto di un vociante allarmismo che confonde le idee e impedisce di agire con efficacia.