Cattivi scienziati
Gli studi che smontano le balle sull'ecocidio nell'Isola di Pasqua
L'ipotesi che gli abitanti dell'Isola abbiano distrutto il loro territorio fino all'estinzione viene smontata dalle ricerche più recenti, secondo cui l'idea di collasso autoinflitto nasconde in realtà la vera causa dello sterminio: la riduzione in schiavitù e la diffusione del vaiolo, subito dopo lo sbarco degli europei
Anche l’ultimo tassello è andato al suo posto. Per molti decenni, a partire dai testi scolastici e perfino in qualche film di successo, è stata raccontata una storia paradigmatica sulle conseguenze dello sfruttamento ambientale estremo da parte dell’uomo: quella dell’isola di Pasqua. Il punto di questa storia è una domanda: perché l’eccezionale civiltà dell’isola di Pasqua è collassata? Cosa ha provocato il declino catastrofico della sua popolazione? Fin dagli anni ’80 del secolo scorso, Jared Diamond si è sforzato di rispondere in modo da dimostrare che si tratta di un collasso autoinflitto, come poi ha elaboratamente esposto nel suo famoso libro “Collasso: come le società scelgono di fallire o sopravvivere”. Secondo Diamond, gli abitanti dell'Isola di Pasqua hanno distrutto la loro foresta, degradato il terreno coltivabile dell'isola, spazzato via gli alberi e cacciato ogni animale fino all'estinzione. Come risultato di questa devastazione ambientale, la società complessa che ha eretto i Moai è crollata, precipitando in una guerra civile, fino al cannibalismo e all’autodistruzione.
Molti avevano già messo in dubbio questa narrazione. Innanzitutto, le “punte di freccia” in ossidiana che avrebbero testimoniato la guerra civile finale sono risultate in realtà strumenti e utensili di uso quotidiano, come noto dal 2016. La deforestazione poi, come sappiamo dal 2019, è stata molto graduale, e dunque non può essere correlata a nessun improvviso evento di estinzione della popolazione. Ancora, la costruzione dei Moai non si è affatto interrotta di colpo, ma è continuata persino dopo i primi sbarchi europei, come sappiamo dal 2020.
Due giorni fa, è stato pubblicato su Nature un dato ancora più stringente: studiando il DNA antico degli abitanti di Rapa Nui lungo un periodo di vari secoli, si è scoperto che la popolazione non ha mai attraversato “colli di bottiglia” di alcun tipo, mantenendo la stessa diversità genetica sostanzialmente invariata dalla prima colonizzazione dell’isola. Inoltre, la dimensione stabile della popolazione, stimata da questi dati, è risultata di circa 3000 abitanti, quanti cioè ne trovarono gli europei al loro arrivo, dato perfettamente compatibile con la popolazione massima sostenibile con i famosi “giardini di roccia” secondo un lavoro pubblicato quest’anno.
Nessun ecocidio, nessun collasso autoinflitto: la storia che emerge è quella di una popolazione che si è perfettamente adattata con ingegno e abilità all’esaurimento delle risorse, rimanendo sostanzialmente stabile nei secoli. Ciò a cui tuttavia non è sopravvissuta quella civiltà, e ciò che ha quasi del tutto sterminato la popolazione indigena di Rapa Nui, è stata la distruzione della sua società, delle sue persone e della sua cultura operata dagli europei. Qualunque siano state le difficoltà che la civiltà dell’isola di Pasqua ha dovuto affrontare prima dell’arrivo dei “bianchi”, sono state insignificanti rispetto alla riduzione in schiavitù e al trasporto in Sudamerica di un terzo della popolazione, nonché allo sterminio causato dal vaiolo successivi alla “scoperta” dell’isola di Pasqua.
Trasformare la distruzione che gli europei hanno causato in un “collasso autoinflitto per mezzo di un ecocidio” ha costruito una parabola moraleggiante, una narrativa autoassolutoria distorta che è ora di abbandonare definitivamente. L’ambiente va preservato a tutti i costi e le risorse vanno risparmiate; ma se c’è una lezione da trarre da Rapa Nui, è quella della resilienza della nostra specie, in condizioni anche molto difficili, quando invece di rassegnarsi utilizza l’ingegno per andare avanti e migliorare le proprie condizioni.
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