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Longevity, verso una nuova frontiera. Un'indagine
Dal miliardario californiano che ha un "unico nemico: la morte" alla ricerca medica che si propone più prosaicamente di allungare la vita in salute. Il lavoro, la "pillola universale" dell'esercizio fisico, la socialità i nuovi elisir
Sveglia antelucana ore 4.30. Misurazione di massa carnosa, di massa grassa, misurazione della temperatura corporea. All’occasione una risonanza magnetica cui segue un frullato sicché la pillola vada giù – anche se le pillole, in tal caso, sono circa 60. Ormoni a mille, addominali a duemila, eppure i baci stanno comunque a zero. Ed ecco. Si sveglia così Bryan Johnson, il guru della longevity ed ex mormone miliardario che nel 2013 vendette Braintree a PayPal per 800 milioni di dollari. Un uomo fuggito dai romanzi di Philip Dick, un cyborg come ne trovate nei reportage di Mark O’Connell, e dunque un ricchissimo appassionato di ginnastica con dispositivi elettromagnetici.
Johnson fa addominali all’alba ed è già colazione: verdure con cioccolato fondente non alcalinizzato, semi di canapa, budino e un quarto di noce del Brasile. Alle 11 in punto Johnson pranza: insalata, barbabietole, patate dolci e ancora pastiglie, stavolta 40, perlopiù integratori. Cibi parchi e una gragnola di ormoni che la metà basta. E infatti è tutto. Alle 11 a.m. la cucina è chiusa e il digiuno, racconta Johnson a Vanity Fair, termina alle 20.30, l’ora di andare a nanna e sottoporsi a monitoraggi di battito cardiaco ed erezioni notturne. Ma alt, a proposito di erezioni, perché a letto il miliardario non ci va solo senza cena (avrete capito l’aria che tira) ma pure senza donzella. Ché fra verdurine e integratori, casa Johnson non è certo una garçonniere (eccetto che per pochi amplessi programmati – brividino! – dove i baci sono rigorosamente banditi).
Ed ecco. E’ all’incirca questo, dicevamo, il pane quotidiano del quarantaseienne residente nel Westside Los Angeles, a Venice, che da dieci anni – scrive nella bio del suo Instagram – ha “un unico nemico: la morte”. E si potrebbe dunque partire da qui. Si potrebbe partire dal suo “Project Blueprint”, squadra di 30 persone che lo seguono, e dalle continue trasfusioni di sangue per aprirci all’universo della longevity. Si potrebbe acciuffare il bandolo fra i capelli colorati con erbe rivitalizzanti rosse o ancora partire dal suo tasso di invecchiamento che – dichiara stavolta alla Welt – è inferiore dell’88 per cento rispetto a quello del diciottenne medio. “Il mio cuore ha 37 anni, le mie ossa e la mia pelle ne hanno 28, i miei polmoni 18, il mio emocromo è quasi identico a quello di mio figlio diciottenne”.
Il signor Johnson, punto d’appoggio del nostro lungo articolo, è il numero uno della longevity. E se adesso la parola non vi è nuova sarà perché sicuro avrete letto anche voi di longevity summit, longevity suite, longevitycities, festival della longevity, longevity summer edition… Ne avrete letto e vi saranno sembrati i soliti Paracelsi e Cagliostri. I ricorsi storici dell’ambrosia e degli elisir di lunga vita. Tutte cose da non farci caso.
Ma adesso, invece, fateci caso. Perché il signor Johnson non s’è inventato niente, certo. Le sue trasfusioni hanno contorni mitici come mitiche furono quelle di Mick Jagger in Svizzera con il sangue di mille vergini. Le sue ossessioni ricordano quelle di Luigi Cornaro, il veneziano di fine Quattrocento che usava retrodatare la propria nascita e che, dopo una vita di eccessi, virò sui Discorsi sulla vita sobria (“12 once di cibo e 20 di vino”). I suoi coiti odontoiatrici, poi, fanno pensare a quell’igienista tedesco di metà Settecento, tale Hufeland, convinto che i nemici della vita lunga fossero crapula e copula (fatta salva quella tra mogli e mariti)… Johnson non s’è inventato niente e ogni secolo ha i suoi mattocchi. Eppure di longevità, oggi, si scrive tanto. Persino troppo. E al di là di Johnson l’argomento, pare, ha tutto un suo lato serio. Ma andiamo con ordine.
Tanto per cominciare la parola fa capolino e sempre più spesso compare sui giornali, sui siti d’informazione, sui siti dei centri estetici. Marina Abramovic, l’artista più importante del mondo, lancia una linea di prodotti per rallentare l’invecchiamento (“Longevity Method”). Oprah Winfrey, la conduttrice più importante del mondo, frequenta in Italia Palazzo Fiuggi dove hanno all’attivo un “Programma Longevity”. Marco Bizzarri, già ad di Gucci, è appena entrato nell’advisory board delle Longevity Suite. E dunque si capisce che un po’ com’era stato sinora col prefisso “bio”, prezzemolino e avanguardia del lustro scorso, accade adesso col nuovo trend a prova di vip e smartphone (ché la misura di tutte le cose non è l’uomo ma il cancelletto).
Talché l’hashtag longevity, che su Instagram conta un milione e mezzo di click, dischiude oggi un mondo di lusso, voluttà e di filosofia che è di tutti ma non per tutti (pensate che le sole vettovaglie, e le sole pillole, costano a Johnson 1.200 dollari al mese). Epperò, di cosa parliamo quando parliamo di longevity è difficile dire a meno di non mettere a fuoco il concetto base. E il punto, forse, è che della bellezza pura, in un mondo vecchio, interessa sempre meno. Il punto è che la natura, dopo decenni di labbra a canotto s’è capito, avvizzisce lo stesso. Anzi, con le labbra a barchino avvizzisce peggio e allora tanto vale, se tanto a lungo tocca vivere, puntare sulla lunghezza ma soprattutto ottimizzarla a pacchi di integratori. Bonificarla con trasfusioni faustiane (come in Silicon Valley, la serie HBO dove giovani “blood boy” rendono il sangue fresco ai ceo). Oppure, in alternativa, mettersela via e non pensarci più nella criocamera d’un centro benessere. E questa, chiaramente, era la parte più pop. La longevity come hashtag e stravaganza californiana che invece, a sentire medici, strateghi, imprenditori e architetti qui convocati, tutto è – o dovrebbe essere – meno che riccanza elitista. Ed è questo, forse, il motivo per cui se ne scrive tanto e decidiamo di scriverne noi. Perché, come ci dice Stefano Boeri, “l’anziano è l’avanguardia che in quanto fragile vive una condizione in agguato nella vita di tutti”. E giocoforza “tutti beneficiano d’un contesto che sgravi la fragilità”. Sillogismo perfetto. Anche se prima ci serve una definizione.
Parlano gli scienziati
“Oltre il vampirismo Bryan Johnson non dimostra niente”. Parola di Alberto Beretta, immunologo presidente di SoLongevity, tra le più importanti aziende italiane nel settore medico il cui obiettivo – leggiamo sul sito – è il trasferimento delle conoscenze dall’ambito dell’invecchiamento cellulare alla realtà clinica.
Johnson il cyborg, nonché cavia di sé stesso, “non è un esperimento scientifico né può esserlo perché quando parliamo di medicina della longevità”, chiarisce Beretta, “non possiamo prendere a esempio un miliardario che ingerisce cento pillole al giorno e si adopera in migliaia di attività. Voglio dire: è ovvio che, mettendo insieme tutto, qualche risultato lo ottenga. Ovvio che raggiunga un’età biologica inferiore di dieci anni a quella cronologica. Sarebbe strano il contrario e non sappiamo, comunque, cos’abbia avuto un reale impatto sulla sua biologia”.
In ogni caso, ci dice ancora l’immunologo, virando dal postumano all’umano, “anche noi abbiamo pazienti nella sua stessa condizione”. Pazienti biologicamente più giovani dell’anagrafe? “Più giovani persino di dieci anni! E non si tratta di asceti o di cyborg ma di semplici sportivi con uno stile di vita misurato ma non rigido, oltre al fatto che astenersi dai rapporti erotici è tutt’altro che consigliato”. Meno male. “Ma certo. La castità un’idiozia. Le endorfine dell’orgasmo sono fondamentali nella fisiologia della persona. Semmai quello di Johnson è un fenomeno pop”, sostiene il medico, “comunque interessante perché riguarda i cosiddetti biohackers”. Bio che? “Gli hackers della vita”. Come dire, i pirati che ne erodono i confini? “In Italia abbiamo Gianluca Vacchi”, confermano in SoLongevity. E in effetti lo ricordiamo, Vacchi, nel docufilm Mucho Más intento in abluzioni ghiacciate, camere iperbariche, sveglie alle cinque, dissennatezze instagrammatiche…
Epperò. Biohackers a parte, la verità, vi prego, sulla longevity. Insomma che cos’è? Da dove cominciare? Possiamo davvero considerarla una filosofia cui siamo tutti vocati o è l’antico sogno per pochi eletti? In altre parole, c’è longevity per tutti o è l’antica speranza della pietra filosofale, dell’aqua vitae o di Isabella Rossellini che vende a cifre esose l’elisir di lunga vita a Meryl Streep?
Nella nostra confusione Alberto Beretta riparte dalle basi. Ovvero dal fatto che non parliamo di vivere per sempre, ovviamente, ma di “vivere bene”. Là dove “bene” – nell’aspirazione dell’uomo medio e cioè non ricco, non miliardario – significa vivere a lungo ma sani. E in effetti tutti gli esperti da noi convocati – medici, imprenditori, comunicatori – esperti di longevity che usano l’inglese ogni due frasi, ci dicono che non è questione di lifespan ma di healthspan. In altre parole, se come si suol dire l’importante è durare, bisogna però durare in salute. Perciò “la longevity non è romitaggio né castità: è piuttosto medicina anticipativa che lavora sui meccanismi epigenetici per misurarli e modificarli”. L’epigenetica è fondamentale. Ma che significa? “Vuol dire che i geni di per sé sono semplici interruttori che determinano una predisposizione (all’infarto, mettiamo, o alla vita in salute) ma che possono essere tenuti accesi o spenti, e che senza quest’azione di accensione o spegnimento, ovvero senza un preciso stile di vita, contano per il 20 o 25 per cento”.
Quindi siamo sempre al materialismo storico ottocentesco: l’uomo è ciò che mangia, che ama, che sogna, che fa, è il contesto. Quindi i pilastri della longevity – esercizio fisico, buona alimentazione, buon sonno, gestione dello stress, socialità – oltreché i consigli della nonna salutista sono i farmaci prima dei farmaci. Sono i fattori essenziali che la medicina anticipativa, “per il 70 per cento prevenzione”, può monitorare. L’esercizio fisico in particolare è la “pillola universale”, ci dicono, “che riesce a correggere l’alterazione dei mitocondri, a rigenerare al meglio le cellule staminali, a rimettere in funzione i meccanismi epigenetici che con la nuova medicina possono essere appunto misurati in termini biochimici”. Ed eccoci, quindi. A grandi linee, quando parliamo di longevity, parliamo dell’innesto fra nuove tecniche di misurazione (e d’intelligenza artificiale) con verdure sempre verdi, con sport sempre sano, col vino che sì ma poco e col fumo che invece anche mai (qui in SoLongevity son tutti nostalgici di Berlusconi – della serie: longevity politics – ma per amor di Girolamo Sirchia, il ministro della Salute estensore del divieto di fumo ai locali pubblici).
E dunque l’epigenetica, si diceva, è parola chiave quando parliamo di longevità. Ed è ancora il cuore del discorso che affrontiamo adesso con Maddalena Adorno, ceo di Dorian Therapeutics e docente di Ageing and longevity a Stanford Continuing Studies che, con la sua attività, voleva “dare un’altra chance a Dorian Gray, invecchiato bene ma morto male”. Scienziata e imprenditrice, Adorno ci pitta il Dna come un libro i cui caratteri (geni) non cambiano, perché a cambiare, dice, sono piuttosto le pagine che si aprono mano a mano. Ed ecco, proprio in questo sfoglio “c’è quello che chiamiamo epigenetica”. Chiaro. Adesso abbiamo un’immagine, il libro, che un po’ c’illumina. Ma per capire in quale capitolo del libro siamo, invece, come si fa? “Per chiarire l’età biologica, che non è necessariamente uguale all’età cronologica, ci sono gli orologi biologici, ossia gli epigenetic clock sviluppati per la prima volta da Steve Horvath, genetista tedesco-americano”. Epigenetic clock che dopo tanto inglese, però, ci riportano dritti al vernacolo nostro e dunque alla “morte che sta anniscosta in ne l’orloggi” di Gioacchino Belli. E che invece sta nascosta, in punto di scienza, nei livelli di epigenetica presenti nel Dna.
“Gli orologi biologici si misurano tramite prelievi di sangue”, ci spiega Adorno, “o di saliva”. Anche se poi ci sono altri “predittori funzionali di longevità come il grip strenght, la forza nella presa delle mani, oppure le misure cardiache, come l’Hrv”. Ma ecco il motivo per cui a volte, discettando di longevity, ci pare di parlare di magia in un mondo ossessionato dalla scienza – il corsivo è sempre di Isabella Rossellini ne La morte ti fa bella – è che a oggi “ci sono almeno venti modi diversi per stabilire l’età biologica, e non ci sono test ufficiali adottati dall’Fda. Perciò molti sforzi”, conclude la scienziata, “sono nel decidere quali sono i biomarkers (i valori diagnostici) per stabilire l’età”.
Scienza, magia, ma soprattutto demografia
E sono sforzi cruciali. A maggior ragione se dopo la medicina e scherzando, ma manco troppo, dopo la magia, il terzo pilastro della longevity è la demografia. A tal proposito, Nicola Palmarini, direttore del Nica (Uk National Innovation Centre for Ageing, l’organizzazione del governo britannico per la promozione della longevity economy), riaccende il faro sul segnale demografico: 2 miliardi di ultrasessantenni nel 2050. Un dato colossale che pone un tema al confine con il tabù. Perché fintanto che parliamo di pensioni, ci spiega Palmarini, ci sfugge di mente che i pochi bambini nati oggi avranno un’aspettativa di vita verosimilmente più lunga rispetto al passato. Ci sfugge insomma che i ggiovani d’oggi non hanno solo una g di troppo, ma pure quindici anni di più. Detto altrimenti, l’età si allunga ed è tutta una vita in proroga, talvolta persino in differita. Sicché tra gli addetti ai lavori (della longevity) si parla di maternità dopo i cinquanta e di come renderla possibile. E poi si parla di grey divorce (i divorzi grigi, dal colore dei capelli) che invece possibili sono già (Rupert Murdoch insegna).
E dunque Palmarini arriva a un punto che, oltre la leggenda johnsoniana e più della medicina, ci pare davvero poco opinabile. Ovvero il fatto che se gli anziani aumenteranno di numero e i giovani diminuiranno, fondamentale sarà garantire una vecchiaia in salute acciocché dall’ormai insostenibile cultura (o culto) della pensione si passi a quella del lavoro in terza “o quarta, o quinta età, sia per il sostegno all’economia, sia per mantenere una società più coesa e integrata”. In altre parole, è la famosa necessità che deve diventare virtù. E’ il mito che dovrebbe diventare realtà. A dispetto delle fantabiografie californiane. Più longevity per tutti, quindi. Ma a che costo?
Ricchi e poveri
Se la morte ci fa belle o è la solita livella, non lo sappiamo. Quanto alla vecchiaia, invece, della livella è l’esatto opposto. E il fatto è che una terza età in salute è questione di reddito. Invecchiare vispi qualcosa costa. Il che sarebbe finanche scontato visto il consueto iter medico per cui persino l’immunoterapia e gli antibiotici, ci dice la ceo di Dorian, in passato erano “luxury product”. In ogni caso, però, poiché non di soli farmaci vive l’uomo, tocca fare un passo avanti. Nicola Palmarini c’introduce adesso a una parola nuova. Dall’epigenetica ci spostiamo sull’esposomica (quante parole difficili!). Vale a dire sulla totalità delle esposizioni ambientali alle quali un individuo è soggetto dal concepimento in poi. Perché esattamente da quel dì – giorno 0 – ogni individuo invecchia in maniera diversa, spiega Palmarini, sulla base di vari fattori, di cui la più parte si compone di contesto e – come sempre nella vita – di scelte personali. A essere precisi, la torta si struttura così: comportamenti individuali (per il 36 per cento), circostanze sociali (24 per cento), genetica e biologia (22 per cento), cure mediche (11 per cento) e caratteristiche del territorio (7 per cento).
A Londra, dove Nicola Palmarini vive e lavora, l’attenzione alla vecchiaia in salute è centrale tra gli inglesi abbienti, non miliardari ma abbienti. Qui spopola Zoe, azienda che si occupa di nutrizione personalizzata e vende kit di test del microbioma intestinale con abbonamento mensile e un’app di consulenza e monitoraggio della dieta (il costo è di circa 800 sterline). Tramite l’app, per capirci, i bisognini della borghesia britannica – pecunia ma olet – vengono raccolti e analizzati dagli esperti casa per casa. Splatter? Forse. Ma meglio che niente o meglio che poco (come pochi sono in Italia i 100 milioni stanziati dal fondo Pnrr per il progetto Ageity).
E per focalizzare ancora l’importanza del reddito e dei comportamenti, e cioè delle esposizioni non genetiche, bisogna guardare la mappa di una città come Chicago. Nella metropoli dell’Illinois – 2.746.388 abitanti – tra due zone come Streeterville (quartiere bianco) e Englewood (nero) ci sono nientemeno che trent’anni di differenza nell’aspettativa di vita. Impressionante. Eppure fondamentale per fuoriuscire dal bunker di Bryan Johnson (non ve lo sarete dimenticato?) e approdare a una dimensione di longevità diffusa. Longevity radiosa. Siamo ottimisti: a una nuova Città del Sole. “Bisognerebbe vedere almeno tre alberi fuori dalla finestra; garantire almeno il 30 per cento delle aree pubbliche ombrizzate; poter raggiungere un parco non oltre i 300 metri da casa”. Così parla al Foglio Stefano Boeri, l’artefice – tra gli altri – del Bosco verticale e del Nuovo ospedale Policlinico di Milano con un giardino pensile di 7.000 metri sul tetto.
Tre alberi, 30 per cento verde, boschetti a 300 metri. E’ la città della longevity che Boeri metta a tema con la scansione tipica e geometrica dell’utopista secentesco. Ed è dunque una nuova Città del Sole, la città di cui parliamo? “Direi che è una città dell’avanguardia”. Perché, per tornare a monte, spiega l’architetto, “l’anziano è avanguardia in quanto fragile e, fuor di retorica, una città per fragili è una città più agile. Addirittura più veloce per tutti”. E sono i famosi 15 minuti che si riverberano sulla mobilità sociale, quindi, non meno che anagrafica. Per Boeri parliamo infatti di una città che non preveda ghetti. Ovvero una città senza Streeterville e Englewood e, di più, senza quartieri della movida da un lato e quartieri-ospizio dall’altro. Piuttosto, sono proprio le case di cura e le Rsa, dice, i ghetti da evitare. Considerando che l’invecchiamento – e questo lo dicono tutti: medici, imprenditori, filosofi, architetti – è un fatto cognitivo. Un decadimento che inizia allorché ci si assopisce. Oppure, detto altrimenti – e cioè detto alla nicciana – il fatto è “che si resta giovani se l’anima non si distende, se non anela mai alla pace”.
Comunque, se già esiste una piattaforma internazionale – “Longevity city” – dove da Barcellona a Tel Aviv spicca Bergamo, nelle grandi città italiane i quartieri migliori, sempre a detta di Boeri, sono Garbatella a Roma e Figino a Milano. Verde anti-stress e, in effetti, stando alla zona che conosciamo – la zona romana – né movida né Rsa. Quartieri a misura umana perché longevity, nuovo mantra in apparenza frufrù, è forse solo un richiamo alla misura. Che poi è un richiamo alla realtà. Ovvero al fatto che oltre Johnson – diafano, sfilato, capello silvano come l’elfo di Tolkien – gli ottanta sono per tutti i nuovi sessanta e i trenta, come si dice, sono i nuovi dieci. La vita s’è allungata, la fine è slittata. Sicché se si vuol fare i ragazzi canuti – tal è l’andazzo – prima di tutto ci dev’essere il fisico. Ché quando c’è la salute c’è tutto, si sa. Per quanto invece le stagioni della vita, come quelle del meteo, non esistano proprio più.
Cattivi scienziati