Primo piano di un lupo grigio dominante (Canis lupus) che ringhia in un parco faunistico nella Norvegia (Foto di Wolfgang Kaehler/Getty Images) 

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Al lupo, al lupo! C'è bisogno di una nuova idea di natura selvaggia

Antonio Pascale

Quella raccontata dall’ambientalismo radicale non è mai esistita. Altro che Eden, non c’è nulla di più antropocentrico di immaginare un luogo incontaminato dall’attività umana, che necessita di un controllo totale da parte dell’uomo

Alla fine degli anni 70, in montagna, sul Matese, bloccato in macchina insieme a mio padre a causa di una tempesta di neve, vidi sul bordo della strada, inquadrato dai fari dell’Ascona, un lupo. Un attimo, perché così come era apparso tra le raffiche di vento e neve, così scomparve, risucchiato dal buio. Un animale selvaggio, bellissimo (nel ricordo), orgoglioso e forte, immobile e sereno come un monaco zen, incurante delle intemperie. Un lupo dal folto pelo, il cui spirito avrei sognato di incarnare. 


Negli anni a venire, ricordandomi del lupo, ho sognato di assomigliargli, cercando in me qualcosa di selvaggio e di forte. Mi dicevo: prima o poi, nella vita, finirò (simbolicamente) in un tempesta di neve. 

   

Il ricordo di un animale selvaggio, bellissimo, orgoglioso e forte, immobile e sereno come un monaco zen, incurante delle intemperie

   
Alla fine degli anni 70, i lupi in Italia stavano messi male, ne erano rimasti meno di 200 esemplari, da sempre abbattuti dall’uomo e poi contrastati (legalmente) grazie a una serie di norme formulate su misura. Poi grazie al Wwf, a politiche nuove come quella dei parchi naturali, la percezione nei confronti del lupo è cambiata. Nel giro di due decenni, il lupo che sopravviveva solo sulle cime dei monti abruzzesi, in Toscana, in Calabria, è tornato a diffondersi in tutta Italia (arrivando anche in Francia dove era scomparso). L’ultimo censimento di qualche anno fa, realizzato con la collaborazione di 3.000 persone, stima l’esistenza di circa 3.600 esemplari di lupo. Che dire? Lo spirito selvaggio è tornato, come era nei miei sogni certo, e con lui anche l’idea di natura selvaggia con tutto quello che ha rappresentato, dal romanticismo fino a oggi: immersione, ispirazione, rifugio, fuga dalla pazza e conformistica folla. 


Certo non sono mancate idee di natura selvaggia un po’ comiche. I romantici la natura per carità la invocavano, ma mica la conoscevano bene. Anche il nostro Ugo Foscolo, quando in pena per Teresa se ne va sui colli Euganei, descrive una tempesta e mette tutto dentro, come in un contenitore, vento, fiere, selve, e voglio dire stava su una collina, al massimo 600 metri, mica su una catena montuosa tibetana. 


E però, con il ritorno del lupo e della natura selvaggia, arrivano alcuni problemi. I lupi vanno protetti, e non succede niente – si pensa – se di tanto in tanto si mangiano le pecore. Poi certo, ci sono branchi di lupi in Pianura padana che si sono specializzati nella caccia alle nutrie, e lì, siccome le nutrie causano non pochi danni ai canali di bonifica, costruendo tunnel e rendendo gli argini più fragili, nessuno se la prende con il lupo. Quindi fin qui tutto bene


Ma ultimamente ci sono state predazioni da parte del lupo di animali domestici. E allora, quando il cittadino che ha deciso in nome dello spirito selvaggio di lasciare il condominio borghese e di abitare in mezzo  alla natura, costruendo o affittando una villa circondata dal cancello elettronico e difesa dal cane, trova il suo pet sbranato, beh allora la musica cambia. 

   

Quello che vale per il lupo vale per i cinghiali? In Italia ce ne sono un milione e mezzo. Troppi. Danni annuali all’agricoltura per due milioni

  
Sono anche questi i momenti in cui pensi: esistono i lupi, dunque esiste una natura selvaggia, e questa natura selvaggia è qui, attorno a me. Una cosa è guardare il lupo dall’abitacolo della macchina, immobile sul bordo della strada, avvolto dalla bufera di neve, magico e totemico, altra cosa è osservare l’animale selvaggio in azione che sbrana l’amato cane. Questo vale per il lupo, che comunque vada detiene un certo fascino. Ma i cinghiali? In fondo sono maiali selvatici, brutti e pelosi, e a parte che una loro eventuale apparizione sotto la neve non regala chissà quali emozioni, a parte che quando li vedi vicino ai sacchi dell’immondizia fai subito un video per “Welcome to favelas”, ma poi, allo stato dell’arte, in Italia ci sono un milione e mezzo di cinghiali. Troppi. Di questi, ogni anno ne vengono abbattuti 300 mila, e i danni annuali all’agricoltura ammontano a 2 milioni di euro

  
Non sia mai che si diffonda la peste suina, non sia mai che la peste colpisca gli allevamenti lombardi ed emiliani, quelli che si susseguono tra Piacenza e Langhirano, in quel caso dovremmo abbattere tutti i capi e risarcire gli allevatori per circa 3 miliardi e 700 mila euro. Capite che metti i cani mangiati dai lupi, metti la peste suina, metti i soldi che bisogna spendere, si cambia idea. Anche se vivi immerso nella natura  e ne senti che lo spirito, cominci a guardare con occhiatacce i gruppi ecologisti che dicono: la natura è del lupo e del cinghiale, ma anche dell’orso, nelle nutrie, degli scoiattoli, quindi siamo noi che occupiamo il loro territorio, andiamo via e lasciamo la terra a loro, in nome della biodiversità ecc. ecc. 

   
La domanda a cui dobbiamo rispondere, il dilemma che ci tocca affrontare senza reticenze è: se la natura selvaggia diventa troppo selvaggia? Va bene, la biodiversità, ma questa è molto difficile da analizzare, non è come il cambiamento climatico per cui misuriamo la temperatura per analizzare il trend, qui si tratta di valutare più ecosistemi e le loro interazioni. Insomma, un ecosistema potrebbe diventare, per esempio, così ricco di selvaggina che poi quest’ultima arriva a insidiare l’uomo e i suoi animali addomesticati? E ancora, per alzare la posta e sfidare indicibile: l’agognata  ricerca di luoghi incontaminati e aree protette può danneggiare gli umani che in quelle aree vivono da secoli? Forse è necessario addolcire la natura invece di cercare di conservare una presunta purezza. 

  

Lupi, Alexei Stepanovich Stepanov (1858-1923) collezione del Museum of Fine Arts Academy, San Pietroburgo (Getty Images) 
    

Il problema è questo: un’idea di purezza, piuttosto vaga dal punto di vista teorico, diventa molto pericolosa dal punto di vista pratico, anche perché si appoggia su un’emozione primordiale e definitiva, e cioè il disgusto. Hai voglia ad appellarti alla parte razionale. Il disgusto alimenta molte delle nostre scelte, spesso cattive. Porta a giudicare malissimo quello dissimile da noi, un attimo e fai partire una guerra: una volta è il cibo che non è puro, una volta è la ricetta che non è quella tradizionale, un’altra volta è l’architettura che non è quella delle origini. Spesso la purezza si incarna in un’idea di natura. Così si immagina e si richiede un giardino incontaminato, al di fuori della nostra portata, incorruttibile, perché insensibile nei confronti dell’umana corruzione, e immarcescibile, magari in opposizione con il secondo principio della termodinamica. 

  
Ci si pone, insomma, davanti a un sistema binario, per citare una definizione di moda: o natura o non natura, o Eden o corruzione. Non c’è nulla, diciamolo per evitare reticenze, nulla di più antropocentrico di immaginare e lottare per una natura così perfetta e ordinata, dove i lupi non sbranano gli agnelli, dove tra gli agnelli non ci siano maschi e femmine dominanti, dove i patogeni non infestino le piante, un mondo armonioso nel quale non solo la morte e i suoi mortificanti disfacimenti del corpo siamo banditi, ma anche la vita, con la sua lotta per il possesso e il potere non sia così greve. 

       
Niente di più antropocentrico immaginare un luogo incontaminato dall’incessante attività umana, dove la natura selvaggia può esistere in tutta la sua naturale ferocia. Un luogo siffatto per poter esistere necessita di essere controllato completamente dall’uomo. Immaginate il tentativo di ricostruire lo stato di natura del Pleistocene, circa 13.000 anni fa, insomma, più naturale di così. Ecco, significherebbe sterminare ogni specie non autoctona degli ultimi 13 millenni e ricreare tutte le specie che c’erano prima dell’arrivo dei sapiens. Chiaro che un’ipotesi di rewilding vuol creare artificialmente e controllare un luogo deumanizzato ma solo per alimentare la nostalgia per un posto in cui non siamo mai stati: sempre di antropocentrismo si tratta.


Visioni siffatte, tipiche di una certa cultura che qui solo per comodità chiameremo ecologista radicale, arrivano a dire che non dovremmo allevare animali e va bene, capisco la nuova e benvenuta sensibilità, ma nemmeno dovremmo addomesticare i nostri animali. Ogni domesticazione è infatti una violenza. Per quale motivo dovremmo selezionare un cane da compagnia che non serve a fiutare la selvaggina ma solo ad accoccolarsi in grembo?


Secondo alcuni filosofi antinatalisti (gli antinatalisti sono i padri del pensiero ecologista) è necessario decrescere dal punto di vista demografico, anticipare la nostra dipartita. L’unica speranza per la natura infatti è che questa, qualunque cosa significhi, non ci comprenda più: non essere più sapiens è l’unica possibilità per far trionfare la natura – a metà Settecento il teologo americano Jonathan Edwards osservò una campagna spopolata dal genocidio e vide la purezza divina di Dio.

  

Otto von Thoren, Una mucca attaccata dai lupi, prima del 1872 (Heritage Images tramite Getty Images) 
     

Questa idea di natura paradisiaca è efficace? E’ proponibile? Se nel lungo periodo questa idea lotta per la scomparsa dei sapiens (non sottovaluto affatto il pensiero antinatalista, solo che bisogna saperlo affrontare nelle scelte di ogni giorno) nel breve periodo ha declinazioni, contribuisce a formare immaginario? Tende in ragione di tale immaginario a creare luoghi naturali, vuoi parchi, vuoi oasi, dove l’uomo sia un ospite indesiderato?

    
E’ quello che si stanno chiedendo alcuni ambientalisti americani, diciamo così, di nuovo conio, razionali, analizzando alcuni luoghi, parchi naturali o altri, che sono stati realizzati proprio in nome della suddetta visione. Si stanno chiedendo: che succede se la natura passa da essere demonizzata a divinizzata? Difatti, per i primi ambientalisti, luoghi come Yellowstone erano importanti proprio perché rappresentavano l’ideale di un Eden incontaminato. Non per niente lo storico Mark David Spence li definisce una manifestazione del progetto originale di Dio per l’America. Ma era una comoda invenzione. Il suolo di Yellowstone porta la traccia indelebile di quasi  12 mila anni di caccia, raccolta, estrazione mineraria, commercio e abitazione umana. I Tukudika Shoshone, un gruppo di nativi americani, utilizzarono l’area fino a quando non fu messa da parte dallo stato per la conservazione. Solo l’interruzione attiva da parte dell’esercito statunitense e, in seguito, del National Park Service ne impedì il ritorno.

  

In Africa, uno studio stima che  circa 14,4 milioni di persone siano state sfrattate affinché le riserve e i parchi potessero essere demarcati

   
Ancora, il popolo Stoney Nakoda fu costretto ad abbandonare quello che sarebbe diventato il Parco Nazionale Banff da una potente lobby di cacciatori sportivi che disprezzava la caccia di sussistenza degli aborigeni. Nella sostanza, i cacciatori sportivi avanzavano rivendicazioni infondate contro i Nakoda, accusandoli  di far strage di selvaggina con la loro caccia, e trovarono alleati proprio negli amministratori dei parchi, che a loro volto accusavano i Nakoda della diminuzione del numero di animali nelle Montagne Rocciose. In Africa, i sociologi Charles Geisler e Ragendra de Sousa con un loro studio recente hanno stimato che  circa 14,4 milioni di persone siano state sfrattate affinché le riserve di caccia e i parchi potessero essere demarcati.  Scrivono i due sociologi: “L’Africa è una regione di grande interesse per la risoluzione del rapporto tra sicurezza umana e ambientale. Innanzitutto, quasi due terzi della popolazione africana è ancora rurale. In un momento in cui la comunità globale sta rafforzando il proprio impegno per la conservazione della biodiversità attraverso parchi e aree protette, la maggior parte delle quali sono rurali, una grande percentuale della popolazione africana si trova sul percorso di aree protette espanse”. 


Insomma, il rischio esiste, bisogna capire come muoversi. In un saggio “Una breve storia della filosofia della conservazione americana”, il filosofo americano J. Baird Callicott ragiona su questo punto di partenza che potrebbe essere un buono spunto per i futuri ragionamenti ambientalisti: “Gli esseri umani non sono semidei creati appositamente e di valore unico, così come la natura non è un vasto emporio di beni, servizi e comfort. Siamo, piuttosto, una parte molto importante della natura”. Gestire con consapevolezza questa parte importante, cioè noi sapiens, significa nella sostanza riflettere con serietà sui lupi: prima apparivano nelle tempeste di neve e alimentavano un’idea di natura, ora proprio in funzione di quella idea di natura te li trovi sotto casa. C’è bisogno di una nuova idea di natura selvaggia. E di uomo, ovviamente. 
 

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