Cattivi scienziati
Le censure di Trump sono un attacco al cuore del metodo scientifico
Cancellazione di dati fondamentali dai database pubblici, bando di specifici termini nelle pubblicazioni scientifiche e blocco improvviso dei finanziamenti da parte delle principali agenzie di ricerca: quella del tycoon non è una battaglia politica, ma una minaccia alla scienza stessa
Nell’ultimo mese, l’amministrazione statunitense ha scatenato un attacco senza precedenti alla ricerca scientifica, mettendo in atto una strategia sistematica per eliminare dati, censurare pubblicazioni e strangolare finanziariamente intere aree di studio. Il quadro che emerge non è quello di semplici interferenze politiche, ma di una vera e propria operazione di riscrittura della realtà, un tentativo deliberato di piegare la scienza agli interessi del potere. L’impatto di queste azioni non si limita agli Stati Uniti: la comunità scientifica globale dipende fortemente dai dati, dalle risorse e dalle istituzioni americane per portare avanti il proprio lavoro. Se la più grande potenza scientifica mondiale inizia a cancellare archivi, proibire parole e bloccare finanziamenti per argomenti scomodi, l’onda d’urto si propaga ovunque, minacciando la trasparenza della conoscenza e il progresso della ricerca internazionale.
Uno dei primi segnali di questa deriva è stata la cancellazione di dati fondamentali dai database pubblici, in particolare quelli gestiti dal Cdc, che contenevano decenni di ricerche epidemiologiche, statistiche sanitarie e studi ambientali. La rimozione non è stata casuale: sono stati eliminati archivi relativi a tematiche considerate politicamente scomode, rendendo impossibile l’accesso a informazioni essenziali per la salute pubblica, la prevenzione delle malattie e lo studio dell’ambiente. Questa distruzione di dati non colpisce solo gli Stati Uniti. Epidemiologi, climatologi, medici e biologi di tutto il mondo si affidano ai database americani per condurre ricerche, confrontare modelli e sviluppare strategie di intervento globale. Cancellare queste informazioni significa privare la comunità scientifica mondiale di strumenti indispensabili, compromettendo la capacità di affrontare pandemie, studiare il cambiamento climatico e sviluppare nuove terapie.
Ma la cancellazione dei dati è solo una parte dell’attacco. L’amministrazione ha imposto il bando di specifici termini nelle pubblicazioni scientifiche, obbligando i ricercatori affiliati a istituzioni governative, come il Cdc, a ritirare articoli già accettati o a rimuovere parole e concetti ritenuti “inadatti” o politicamente problematici. Non sono le riviste scientifiche a operare questa censura, ma gli stessi scienziati, costretti ad adeguarsi alle nuove direttive per evitare il blocco delle loro pubblicazioni.
Questo non è solo un affronto alla libertà accademica, ma un attacco al cuore stesso del metodo scientifico: se la ricerca non può descrivere i fenomeni con precisione e senza censure, allora perde la sua funzione principale, quella di fornire una comprensione oggettiva della realtà. Anche in questo caso, le conseguenze vanno ben oltre i confini statunitensi. Le istituzioni scientifiche americane producono una quantità enorme di conoscenza che influenza la ricerca internazionale. Se i lavori pubblicati devono sottostare a restrizioni linguistiche e ideologiche, l’intera produzione scientifica globale rischia di essere contaminata da una forma di autocensura che altera il modo stesso in cui la conoscenza viene generata e diffusa.
La terza arma utilizzata per soffocare la scienza è stata il blocco improvviso e totale dei finanziamenti da parte delle principali agenzie di ricerca, tra cui la National Science Foundation e il Nih. Senza alcun preavviso, interi laboratori si sono ritrovati privati dei fondi necessari per continuare i loro progetti, con ricercatori costretti a interrompere studi in corso e a sospendere collaborazioni internazionali. Poi, altrettanto improvvisamente, i finanziamenti sono stati ripristinati, ma non per tutti: solo le ricerche che rispettavano criteri politici impliciti hanno riavuto i loro fondi, mentre quelle su argomenti ritenuti inaccettabili sono rimaste congelate. Questo metodo subdolo non solo permette all’amministrazione di controllare indirettamente il tipo di scienza che viene prodotta, ma crea un clima di insicurezza e paura che paralizza l’intera comunità scientifica. Il risultato è un effetto domino globale: molti progetti finanziati dagli Usa coinvolgono ricercatori di altri paesi, e il loro blocco selettivo si ripercuote su collaborazioni internazionali, interrompendo studi cruciali e rallentando l’avanzamento della conoscenza in settori chiave come la biomedicina, la fisica e l’ingegneria ambientale.
Quello che sta accadendo segue un copione ben noto nei meccanismi del potere autoritario: prima si crea il problema, poi si offre la soluzione, ma a un prezzo. È la logica della coercizione mascherata da trattativa, un meccanismo che somiglia pericolosamente al metodo mafioso della “protezione”. Prima si usa la forza per distruggere, creare caos e mettere le persone in difficoltà, poi si concede un apparente sollievo, reintroducendo parzialmente ciò che si era tolto, ma con condizioni precise e vantaggiose per chi ha orchestrato l’intero attacco. Il blocco improvviso dei finanziamenti, seguito da una selettiva riattivazione, è l’esempio più chiaro di questa strategia: la ricerca viene messa in ginocchio, costretta a dipendere da decisioni arbitrarie, e quando i fondi vengono riaperti, solo chi accetta le nuove regole del gioco può continuare a lavorare. È un ricatto, una forma di controllo che non ha bisogno di dichiarazioni esplicite per essere efficace: il messaggio è chiaro per chiunque dipenda da questi fondi. O ti adegui, o sei fuori.
Di fronte a questa offensiva, la comunità scientifica americana si trova in una posizione drammatica. Confusa, intimidita e senza una strategia di risposta chiara, non è ancora riuscita a organizzare una reazione forte e unitaria. Singoli ricercatori e istituzioni stanno tentando di mettere in salvo dati e pubblicazioni a rischio, copiandoli su server indipendenti e cercando di trasferire archivi in luoghi più sicuri. Ma questo non è un piano di resistenza: è un tentativo disperato di limitare i danni. Il problema è che la paura sta funzionando. Gli scienziati hanno paura di perdere il lavoro, i finanziamenti, la possibilità di pubblicare. L’effetto è devastante: il dibattito si sta spegnendo, le voci critiche si autocensurano, la ricerca si appiattisce su argomenti considerati “sicuri”.
Il pericolo è evidente e non riguarda solo gli Stati Uniti. Se la più grande potenza scientifica del mondo può manipolare la ricerca in questo modo, il precedente che si crea è pericolosissimo. Se oggi è possibile cancellare interi archivi di dati, domani sarà possibile riscrivere interi ambiti di ricerca, e dopodomani sarà possibile riscrivere la storia della scienza stessa. Un caso esemplare dimostra quanto la minaccia sia reale: se il governo statunitense decidesse di chiudere PubMed, il più grande archivio di letteratura scientifica biomedica, milioni di articoli peer-reviewed sparirebbero istantaneamente, cancellando decenni di conoscenza e lasciando la ricerca medica mondiale in uno stato di caos. Questo non è allarmismo: è la logica conseguenza di ciò che sta già accadendo. Il Cdc ha già cancellato database, i ricercatori affiliati alle agenzie governative stanno già ritirando i propri articoli per conformarsi alle direttive, le agenzie di finanziamento stanno già decidendo quali ricerche possono sopravvivere e quali devono morire.
Questa non è una battaglia politica, non è una questione interna agli Stati Uniti. È una minaccia alla scienza stessa, alla sua integrità e alla sua capacità di servire la società. La scienza è universale, e qualsiasi tentativo di distorcerla o manipolarla ha ripercussioni globali. Se la ricerca americana smette di essere libera, anche il resto del mondo ne subirà le conseguenze. Difendere la scienza significa difendere la libertà di conoscere, la possibilità di costruire il futuro su basi solide e verificate. Ma la scienza non può difendersi da sola: ha bisogno di una reazione collettiva, di una mobilitazione che non lasci spazio alla paura e all’autocensura. Il pericolo è già qui.
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