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Cattivi scienziati

I ricercatori statunitensi in fuga dalle politiche dell'Amministrazione Trump

Enrico Bucci

Il 75 per cento dei ricercatori che hanno risposto a un sondaggio della rivista Nature sta seriamente considerando di lasciare l'America, non per scelte personali o desideri di esplorazione culturale ma per una profonda crisi sistemica scatenata dal governo. Le università europee e, soprattutto, italiane dovrebbero approfittarne per accoglierli  

È una congiuntura storica irripetibile. Un articolo appena pubblicato da Nature documenta una situazione senza precedenti nel mondo della ricerca statunitense: oltre il 75% dei ricercatori che hanno risposto a un sondaggio condotto dalla rivista stanno seriamente considerando di lasciare gli Stati Uniti. A spingerli non sono solo scelte personali o desideri di esplorazione culturale, ma una crisi profonda e sistemica scatenata dalle politiche dell’amministrazione Trump. Tagli draconiani ai finanziamenti pubblici, licenziamenti di massa nelle agenzie federali, attacchi alla libertà accademica e un clima generale di incertezza stanno disgregando un sistema che, per decenni, ha rappresentato uno dei centri nevralgici della ricerca scientifica mondiale.

I numeri riportati parlano chiaro: su 690 ricercatori post-laurea intervistati, 548 stanno cercando di emigrare; su 340 studenti di dottorato, 255 si dichiarano pronti a fare lo stesso. La situazione è ancora più drammatica per i giovani scienziati, quelli che non hanno ancora potuto costruirsi una rete di sicurezza economica e professionale: si trovano improvvisamente in un paese che li esclude dalle priorità politiche, che taglia i fondi ai loro progetti, che rende la sopravvivenza accademica una corsa ad ostacoli sempre più difficile. E non è solo una questione economica: le testimonianze raccolte nell’articolo rivelano anche un senso profondo di smarrimento e di tradimento, di vedere interrotta una vocazione che è anche servizio pubblico, missione culturale, costruzione di un futuro condiviso.

Questa crisi è, per altri Paesi, una chiamata alla responsabilità. Alcune università e centri di ricerca in Europa, Canada e Australia stanno già cogliendo l’opportunità, cercando di capire quanti e quali ricercatori possano accogliere. È il momento di fare altrettanto in Italia. Non si tratta di "approfittare" di un collasso altrui, ma di offrire rifugio e continuità a carriere che altrimenti andrebbero perse. E di farlo in modo selettivo, mirato, ambizioso.

L’Italia non può contare su un sistema universitario o di ricerca generalizzato capace di competere con gli standard internazionali: mancano le strutture, le carriere sono bloccate, le risorse sono cronicamente insufficienti. Ma proprio per questo, è strategico partire da quelle poche istituzioni italiane che godono già oggi di piena credibilità e prestigio internazionale. L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ad esempio, è riconosciuto come un centro d’eccellenza mondiale, parte di reti di collaborazione scientifica globali, capace di attrarre talenti, partecipare a progetti internazionali e gestire infrastrutture scientifiche avanzate come i Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Finanziarlo meglio, dotarlo di risorse per bandire posizioni stabili e ben retribuite rivolte a ricercatori internazionali in fuga dagli Stati Uniti, significherebbe usare l’INFN come leva per portare in Italia competenze strategiche e creare un effetto moltiplicatore di innovazione.

Nel campo delle scienze fisiche e dei materiali, un altro polo strategico è il sincrotrone Elettra di Trieste. È un’infrastruttura all’avanguardia, sede di linee di luce di altissima precisione, utilizzate in settori che vanno dalla biofisica alla nanotecnologia. Il sincrotrone è già un riferimento per numerosi gruppi di ricerca europei e internazionali, e ha la capacità logistica e scientifica per accogliere giovani ricercatori statunitensi in cerca di nuove prospettive. Anche qui, un investimento mirato in nuove posizioni, laboratori, borse competitive e contratti stabili permetterebbe di rafforzare il ruolo di Elettra come nodo scientifico globale e acceleratore di nuove collaborazioni.

l’Italia può vantare inoltre un’eccellenza poco celebrata ma fortemente attrattiva: la sua leadership nel settore della ricerca aerospaziale. Un esempio emblematico è il centro di ricerca della Thales Alenia Space a Torino, frutto di una collaborazione tra l’industria italiana e quella francese, che partecipa stabilmente ai grandi programmi internazionali dell’Agenzia Spaziale Europea e della NASA. È proprio da Torino che sono usciti moduli abitativi fondamentali per la Stazione Spaziale Internazionale e che si stanno sviluppando componenti cruciali per le future missioni su Marte. Questo centro ha infrastrutture all’avanguardia, gruppi di ricerca di altissimo livello, e collabora con enti pubblici e privati in tutta Europa e nel mondo. Potrebbe, con il giusto sostegno pubblico, diventare una destinazione di riferimento per giovani ingegneri, fisici e informatici americani che oggi vedono i loro progetti cancellati e le loro prospettive svanire. Basterebbe dotarlo di risorse per bandire posizioni a tempo determinato competitive, fornire visti e percorsi di integrazione rapidi, garantire la continuità dei progetti di ricerca. E naturalmente, estendere queste condizioni anche ai ricercatori italiani, troppo spesso esclusi da percorsi di carriera dignitosi e ben retribuiti.

Nel campo umanistico e archeologico, il discorso è analogo. Gli scavi di Pompei, il Museo Egizio di Torino, le Gallerie degli Uffizi non sono solo patrimoni culturali: sono anche luoghi dove si produce conoscenza di altissimo livello, dove operano restauratori, archeologi, filologi, storici dell’arte e conservatori capaci di dialogare con i colleghi di Harvard, Oxford o Berlino. Sono strutture già inserite in circuiti internazionali, già abituate alla cooperazione e alla visibilità scientifica. Anche qui, potenziare gli organici, creare borse e posizioni competitive per studiosi e ricercatori americani, garantire libertà scientifica e risorse per la progettualità, significherebbe trasformare queste eccellenze in catalizzatori di un nuovo protagonismo culturale italiano.

Si noti bene: le strutture in campo scientifico ed umanistico che qui ho elencato sono solo degli esempi, e probabilmente esistono altre strutture di pari merito ed attrattività – non intendo far torto a nessuno; tuttavia, il punto importante è che per agire rapidamente e tentare di salvare dalla rovina almeno un pezzettino di quel patrimonio mondiale di competenza e conoscenza che gli USA stanno disperdendo, non è necessario – né realistico – mettere mano subito all’intero sistema. Serve invece far partire una politica mirata e ben finanziata, che sfrutti questi avamposti già riconosciuti nel mondo per attrarre i migliori talenti in uscita dagli Stati Uniti. Sarebbe un segnale forte, concreto e autorevole: l’Italia non solo protegge la scienza e la cultura, ma offre loro un porto sicuro dove continuare a crescere. E, di riflesso, può offrire anche ai propri ricercatori – a parità di merito e condizioni – nuove opportunità, nuovi spazi, un miglior trattamento economico. Perché nessun sistema scientifico può prosperare accogliendo i migliori dall’estero senza, al contempo, valorizzare i propri.

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