(Ansa)

Cattivi scienziati

Medicina selvatica: come gli animali curano se stessi

Enrico Bucci

Lo sviluppo di comportamenti terapeutici per combattere malattie, parassiti e tossine, utilizzando risorse naturali. Questi, spesso analoghi tra specie diverse, rivelano soluzioni adattative che possono essere riscoperte anche dall'uomo

La pratica terapeutica, contrariamente a quanto solitamente si assume, non è una prerogativa umana. È un comportamento distribuito, nato ben prima della cultura scritta, radicato nei comportamenti di molte specie. Animali selvatici di ogni tipo – dai primati agli insetti – adottano strategie per contrastare parassiti, tossine, infezioni, usando quello che trovano nell’ambiente. Negli anni Ottanta, in Africa orientale, ricercatori notarono che scimpanzé malati modificavano bruscamente la dieta: ingerivano foglie amare e ruvide, altrimenti evitate. In Tanzania, si vide che strappavano foglie di Aspilia, le arrotolavano e le ingoiavano intere. Non cercavano nutrimento, ma un effetto meccanico: le foglie raschiavano i parassiti dall’intestino. Analisi successive rivelarono che l’Aspilia contiene tiarubrina A, un potente antibiotico naturale. Le stesse foglie erano già usate dalle popolazioni locali. Non un caso: è un esempio di zoofarmacognosia, la capacità di riconoscere e usare principi attivi naturali.

Altri animali hanno sviluppato strategie analoghe. Le formiche raccolgono resina di conifera e la usano come antisettico per il nido. I gatti si rotolano sull’erba gatta e su altre piante per coprirsi di repellenti naturali. Scimmie e uccelli ingeriscono argilla per legare tossine e regolare l’acidità intestinale. I pappagalli dell’Amazzonia si aggrappano in massa a scarpate di terra per leccare sedimenti alcalini, neutralizzando le tossine dei frutti e integrando sodio e magnesio. L’adattamento non si ferma al selvatico. In ambiente urbano, alcuni passeriformi usano mozziconi di sigaretta nei nidi: la nicotina funziona da insetticida. Altri intrecciano foglie di artemisia nei rami: un rimedio aromatico contro i parassiti. Sono esempi di farmacologia comportamentale raffinata, adattata al contesto.

Nei grandi mammiferi, il quadro si fa ancora più interessante. Un’elefantessa incinta, seguita in Kenya, cambiò improvvisamente dieta e percorse chilometri per cibarsi di una pianta mai consumata prima. Quattro giorni dopo partorì. La pianta era usata da sempre dalle donne locali per indurre il travaglio. Gli orsi, dopo il letargo, cercano piante ricche di salicilati per alleviare infiammazioni e dolori articolari. Le culture native li veneravano come esperti di erbe. E la corteccia di salice, principio attivo dell’aspirina, era nota in medicina ben prima che la chimica ne isolasse il principio, così come è nota a molti mammiferi selvatici che se ne nutrono alla bisogna.

In tutti questi esempi, l’animale non è passivo di fronte alla malattia. Se può, agisce. E lo fa con comportamenti efficaci, selettivi, a volte trasmessi socialmente, a volte geneticamente. Non solo: la terapia può essere usata anche per aiutare altri, invece che sé stessi, proprio come accade con i nostri medici. Perfino negli insetti. Il caso delle farfalle monarca e del parassita Ophryocystis elektroscirrha (OE) è uno degli esempi più eleganti e documentati di questo tipo di medicazione animale verso individui terzi, con una sfumatura ancora più interessante: è la madre a somministrare la “cura” alla generazione successiva.

Il parassita OE colpisce duramente le farfalle monarca: causa disidratazione, perdita di peso, debolezza muscolare, e spesso impedisce loro di completare la migrazione. Non potendosi curare da adulte, le femmine infette reagiscono in modo sorprendente: scelgono piante specifiche su cui deporre le uova. Tra le varie specie di Asclepias che costituiscono il nutrimento dei bruchi, privilegiano specie come la Asclepias curassavica, ricca di cardenolidi – composti tossici che, oltre a scoraggiare i predatori, riducono in modo significativo l’infezione da OE nei bruchi. Gli esperimenti hanno dimostrato che i bruchi nati su queste piante si infettano meno e, se infetti, si ammalano molto meno gravemente. Le madri, se infette all’atto della deposizione, scelgono specificamente le piante giuste, quando viene presentata loro l’alternativa.

Si tratta quindi di una forma di medicina preventiva transgenerazionale: la madre, pur non traendo beneficio diretto, modifica il comportamento riproduttivo in modo da fornire un trattamento “prenatale” alla prole. Un caso esemplare in cui un’informazione adattativa – il riconoscimento e l’uso di una pianta medicinale – può essere trasmessa per via genetica e selezionata evolutivamente, anche in animali privi di apprendimento culturale. Come ha osservato Jaap de Roode, biologo evolutivo olandese attualmente alla Emory University di Atalanta che ha identificato il comportamento delle farfalle monarca appena descritto e ha appena pubblicato un bel libro dedicato ai “dottori naturali”, molte scoperte umane delle culture prescientifiche sono in realtà riscoperte. Il sapere era lì, in un’altra specie; solo non apparteneva al nostro bagaglio, prima che ce ne accorgessimo in qualche fase della nostra evoluzione culturale, osservando gli animali.

Io direi che non si tratta solo di osservazione tardiva. In molti casi, è la convergenza evolutiva a portare specie distanti – anche molto distanti – a soluzioni simili. Le farfalle monarca e gli scimpanzé, gli orsi e le formiche: animali con strutture cerebrali profondamente diverse e capacità cognitive imparagonabili. Eppure, davanti allo stesso problema – infezioni, parassiti, tossine – mettono in atto comportamenti analoghi. Questo accade perché il significato adattativo dell’informazione è lo stesso, anche quando i suoi supporti sono diversi.

Negli insetti, quella stessa informazione può essere fissata nei geni, come un comportamento innato selezionato nel tempo. Nei primati, può essere appresa, tramandata culturalmente, imitata. In entrambi i casi, è un’informazione adattativa trasmissibile: un infotipo. Può viaggiare su geni, memi o bit, ma ciò che conta è che aiuta a sopravvivere e riprodursi in un ambiente ostile. È una conoscenza naturale, fatta di scelte efficaci, selezione attiva, comportamento orientato. Che sia scritta nel Dna, raccontata attorno a un fuoco, o registrata in una banca dati molecolare, il suo valore biologico non cambia. E la distinzione tra genetico e culturale – fondamentale sul piano dei meccanismi – diventa secondaria se si guarda all’effetto: la conservazione di una strategia vincente.

Per questo studiare il comportamento medico degli animali non è folklore biologico: è un modo di accedere a un archivio di soluzioni adattative, sparse nel tempo e nella biosfera, ma convergenti per efficacia. Un archivio che oggi, grazie alla biologia evoluzionistica, possiamo leggere con strumenti nuovi. L’importante è sapere dove cercare. E soprattutto, sapere osservare con i migliori occhi che abbiamo: quelli della scienza.

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