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Cattivi scienziati

Il divario tra Europa e Stati Uniti sulla tecnologia e la scienza

Enrico Bucci

La dipendenza europea dall'America permane in campo militare, farmaceutico, aerospaziale e dei semiconduttori. Il vantaggio europeo, invece, c'è nella manifattura industriale avanzata e nella fisica fondamentale. Ma gli Stati Uniti possono sostituire l'Europa, mentre il contrario non sembra fattibile

Se guardiamo a scienza e tecnologia, la differenza tra Europa e Stati Uniti è molto ampia. Soprattutto sul versante tecnologico, il divario è netto: l’Europa non ha il controllo delle proprie infrastrutture critiche. I sistemi operativi che regolano la vita delle amministrazioni pubbliche, i software che governano i database universitari, le cartelle cliniche, le reti industriali e logistiche, sono tutti americani. Le licenze software, le piattaforme cloud, gli strumenti di collaborazione e gestione documentale, l’architettura digitale dei nostri sistemi economici e istituzionali sono forniti da aziende statunitensi. Se domani queste decidessero di interrompere le forniture per ragioni politiche o strategiche, non assisteremmo a un rallentamento: interi settori smetterebbero di funzionare. Le email non partirebbero, i server non risponderebbero, i documenti non si aprirebbero più, non potremmo più accedere ad un motore di ricerca per navigare internet e così via. Non è uno scenario teorico: è già stato evocato, a micro-livello, in casi di sanzioni o contenziosi.

Anche quando i dati sono fisicamente ospitati in Europa, la loro disponibilità legale dipende dal Cloud Act americano. Le infrastrutture di calcolo, dai supercomputer alle Gpu, sono prodotte oltreoceano. I software fondamentali per la bioinformatica, l’elaborazione linguistica, l’imaging medico, la modellazione climatica o l’analisi satellitare provengono da ambienti di sviluppo statunitensi. I modelli generativi di nuova generazione, da ChatGPT alle AI per la sintesi proteica, vengono addestrati e rilasciati in un ecosistema che risponde a logiche industriali e giuridiche americane. L’Europa li utilizza, li integra, ma non può né condizionarne l’evoluzione né garantirsi un accesso stabile.

Nel campo militare, la dipendenza è ancora più radicale. I sistemi di comunicazione della Nato, le piattaforme di comando e controllo, la sicurezza informatica, la crittografia operativa: tutto è pensato per essere compatibile con hardware e software sviluppati e mantenuti negli Stati Uniti. In assenza di accesso garantito, la difesa europea sarebbe tecnicamente inabile. Non solo indebolita: paralizzata.

Nel farmaceutico, la simbiosi è stretta ma asimmetrica. Gli Stati Uniti guidano lo sviluppo di piattaforme e la finanza dell’innovazione, ma i processi industriali più raffinati — chimica fine, biotecnologia di processo, automazione della sintesi — sono concentrati in Europa. I vaccini a mRNA sono nati da una combinazione: Pfizer si è appoggiata a BioNTech, Moderna a Lonza. Molti brevetti registrati negli Stati Uniti derivano da studi e sperimentazioni europee. Svizzera, Germania, Belgio, Italia restano punti nodali nella produzione biofarmaceutica globale, ma non dettano più l’agenda.

Nell’aerospazio, Airbus rappresenta l’unico vero concorrente di Boeing. Ma le due filiere si incrociano: motori, avionica, materiali compositi, sistemi di bordo vengono sviluppati e forniti spesso in modo incrociato. La Nasa acquista moduli costruiti in Europa — quelli torinesi, ad esempio, per i programmi lunari. L’Agenzia Spaziale Europea ha lanciatori propri, ma dipende dalle reti di controllo americane per diverse fasi critiche. La superiorità americana resta nella scala e nella velocità, quella europea nella precisione ingegneristica e nella qualità incrementale.

Nel settore dei semiconduttori, l’Europa non fabbrica chip avanzati, ma detiene un asset cruciale: Asml, l’unica azienda al mondo in grado di fornire litografie estreme (Euv), indispensabili per i nodi sotto i 5 nanometri. Senza quelle macchine, né Intel né Tsmc né Samsung possono produrre i chip più potenti. Ma anche Asml integra componenti americani fondamentali, che Washington può bloccare o rallentare. La dipendenza, qui, è reciproca, ma il coltello resta nelle mani degli Stati Uniti.

Nella manifattura industriale avanzata, l’Europa mantiene ancora un vantaggio netto. Meccanica di precisione, automazione robotica, strumentazione per il confezionamento e la metrologia: Germania, Svizzera, Italia forniscono impianti a mezza industria americana. I macchinari per l’assemblaggio elettronico, le linee produttive per farmaci, semiconduttori e beni di largo consumo parlano spesso tedesco, italiano o francese. Ma anche qui, l’egemonia americana sui software industriali e sulle piattaforme di gestione erode lentamente l’autonomia.

Nella fisica fondamentale, l’Europa conserva un ruolo centrale. Il Cern, con la sua infrastruttura unica al mondo, conduce esperimenti che nessun altro continente è oggi in grado di replicare. Le sue reti computazionali, i modelli teorici, i sistemi di rilevazione hanno impatto ben oltre la fisica delle particelle: influenzano la scienza dei materiali, la cosmologia, l’intelligenza artificiale. Molti fisici teorici statunitensi sono formati in Europa, e molte piattaforme metodologiche restano europee. Ma la sostenibilità di tutto questo dipende dalla capacità di investimento e aggiornamento: non basta la qualità della scienza, se mancano i mezzi per mantenerla. Anche nella transizione ecologica, l’Europa eccelle in settori chiave: ingegneria delle reti, eolico offshore, filiera dell’idrogeno. Ma le batterie avanzate, i sistemi digitali di gestione energetica, gli algoritmi predittivi sono dominati da imprese americane o cinesi. La sovranità sulle fonti si svuota se non è accompagnata da sovranità sull’informazione e sul controllo. Fin qui, la mappa delle dipendenze europee dagli Stati Uniti. Ma esiste anche una dipendenza inversa, più sottile ma concreta.

Gli Stati Uniti non possono produrre chip all’avanguardia senza Asml. Le loro linee produttive, anche nell’automotive e nella difesa, si appoggiano a impianti industriali europei. I macchinari per la microfabbricazione, le ottiche di precisione, gli strumenti per il packaging farmaceutico e alimentare provengono in gran parte da fornitori europei. Nel farmaceutico, le fasi di fermentazione e purificazione biologica avanzata vengono ancora affidate a impianti europei per motivi di efficienza e qualità. Nella ricerca, le università e i centri di eccellenza europei continuano a fornire capitale umano, competenze teoriche, algoritmi fondamentali. I fisici, i matematici, i bioinformatici formati in Europa costituiscono una parte essenziale della forza lavoro intellettuale americana, soprattutto nei centri di ricerca avanzata e nei laboratori industriali. Persino in ambito aerospaziale, alcune componenti critiche dei veicoli americani sono progettate o testate in Europa.

La differenza, però, è questa: gli Stati Uniti, se necessario, possono sostituire l’Europa, ricostruendo in casa o cercando altrove. L’Europa, oggi, non è in grado di fare lo stesso. Se le tecnologie americane venissero sospese, l’intero sistema economico, amministrativo e scientifico europeo subirebbe una crisi immediata. Ecco perché si può parlare, in molti settori chiave, di una condizione coloniale di fatto. Non c’è dominio formale, ma c’è una dipendenza profonda dai mezzi fondamentali dell’autonomia. L’Europa non è stata invasa: si è lasciata integrare. Ha regolato, ma non ha costruito. Ha difeso la privacy, ma ha affidato i dati a server stranieri. Ha formato scienziati, ma non li ha trattenuti. Ha elaborato visioni, ma si è dimenticata delle infrastrutture.

Oggi quella scelta comoda presenta il conto. Non si tratta di spezzare un’alleanza, ma di prendere atto che senza autonomia non c’è margine di negoziazione. Se il contesto cambia, e sta cambiando, non basterà più regolare. Bisognerà costruire. Altrimenti saremo clienti permanenti di tecnologie altrui. E, come ogni colonia, pagheremo il prezzo delle decisioni prese da altri. Ha perfettamente ragione Draghi: cominciamo ad eliminare quelle barriere che ci siamo creati ed imposti da soli, in nome spesso degli interessi nazionali di ventisette burocrazie e governi indipendenti, e costruiamo su ciò che abbiamo, cioè sulla scienza, sulla ricerca e sulla tecnologia che abbiamo in casa – non in una nazione, ma in ventisette.

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