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Cattivi scienziati

Un decreto impone la tracciabilità dei prodotti sanitari venduti, ma nessuno lo fa rispettare

Enrico Bucci

L’Identificativo unico del dispositivo è uno strumento essenziale di tutela del paziente e di trasparenza, per risalire con certezza al prodotto usato in caso di difetti. Ma nessun controllo è stato attivato da ministero, regioni o Asl, e il rispetto della norma è affidato alla buona volontà dei singoli

La normativa è chiara, le date anche: dal 15 gennaio 2024 è in vigore l’obbligo, per chiunque utilizzi dispositivi medici, di registrare e conservare elettronicamente l’Identificativo unico del dispositivo (Udi), un codice che garantisce la tracciabilità dei prodotti sanitari immessi sul mercato. Questo obbligo deriva dal D.lgs 11 maggio 2023, che recepisce a sua volta le indicazioni europee già operative da anni. Il sistema Udi, previsto dal Regolamento (Ue) 2017/745, è uno strumento essenziale di tutela del paziente e di trasparenza, perché permette di risalire con certezza al prodotto usato in caso di malfunzionamenti, complicazioni o difetti. In pratica, ogni dispositivo medico deve essere dotato di un codice, leggibile anche in formato QR, che ne accompagna l’intero ciclo di vita: dalla produzione, alla distribuzione, all’utilizzo clinico. La registrazione dell’Udi da parte del medico o della struttura che lo utilizza, associata al paziente e alla prestazione, rappresenta la garanzia documentale che quel dispositivo sia stato correttamente impiegato.

Eppure, a oltre un anno dall’entrata in vigore dell’obbligo, gran parte del settore della medicina estetica privata continua ad agire come se nulla fosse cambiato. Siringhe, filler, tossine, fili riassorbibili, dispositivi per il microneedling o la “biorivitalizzazione”: tutto viene acquistato, talvolta anche in farmacia, ma non sempre viene tracciato, né registrato correttamente. Mancano sistemi informatici ad hoc, manca formazione, manca soprattutto la volontà di inserire questa procedura nel flusso di lavoro quotidiano. Il sospetto che emerge da più fonti è che questa reticenza non sia semplicemente disorganizzazione o inerzia burocratica, ma un modo per continuare a operare in zone grigie, sfuggendo al controllo fiscale e impedendo qualsiasi verifica retrospettiva. Se non si registra il codice Udi, non si può dimostrare con certezza quale dispositivo è stato usato, né su quale paziente. In un settore in cui i margini di profitto sono alti, la clientela numerosa e la fatturazione non sempre trasparente, il rischio di abusi è concreto.

La violazione dell’obbligo normativo, però, non è solo una questione fiscale o amministrativa. Ha conseguenze molto più serie e immediate. Innanzitutto, le sanzioni: il decreto legislativo prevede multe significative per chi omette la registrazione dell’Udi, soprattutto se ciò comporta un rischio per la salute del paziente. Ma c’è di più: le polizze assicurative per la responsabilità civile professionale escludono in genere la copertura per sinistri derivanti da comportamenti non conformi alla normativa. Un medico che non registra correttamente i dispositivi utilizzati può trovarsi scoperto di fronte a un contenzioso, anche se il danno non è direttamente causato da quell’inadempienza. In altre parole, un intervento perfettamente eseguito, ma documentato in modo irregolare, potrebbe non essere coperto dall’assicurazione. La compagnia può legittimamente opporsi alla liquidazione del danno, mettendo a rischio il patrimonio personale del professionista.

E tutto questo accade mentre molte aziende produttrici di dispositivi si sono già adeguate, con codici Udi perfettamente leggibili su ogni confezione: è il caso, ad esempio, di Ibsa, Caragen, Mesoestetic, Teoxane, Neauvia. L’industria ha fatto il suo dovere, la normativa è entrata in vigore, ma chi dovrebbe chiudere il cerchio – i medici, le cliniche, gli ambulatori privati – in molti casi non lo fa. Nessun controllo sistematico sembra essere stato attivato, né dal ministero della Salute né dalle regioni, e le Asl, oberate da carichi ben più gravi, faticano a gestire anche i controlli minimi. Il risultato è che, al momento, il rispetto della norma è affidato alla buona volontà dei singoli. E la buona volontà, in un mercato competitivo e scarsamente regolato come quello della medicina estetica privata, non basta. Serve un monitoraggio attivo, serve trasparenza, serve un’informazione corretta verso i pazienti. Chi si sottopone a un trattamento ha il diritto di sapere che cosa gli viene iniettato, quando, da chi, e con quale dispositivo, tracciabile in ogni dettaglio; in caso contrario, la mancata osservanza degli obblighi di registrazione dell’Udi espone i pazienti a rischi significativi in almeno tre modi concreti, documentabili nei casi di cronaca.

Intanto, la mancata tracciabilità dei dispositivi usati rende più difficile bloccare l’utilizzo di prodotti difettosi: se un dispositivo (una siringa, un filler, una protesi) non è correttamente registrato con il suo codice identificativo e non viene associato a uno specifico paziente, in caso di effetti avversi o difetti del prodotto non è possibile né intervenire tempestivamente (per esempio con richiami o comunicazioni mirate), né stabilire con certezza le responsabilità. Questo può inoltre ritardare diagnosi e cure in caso di complicazioni post-trattamento.

Inoltre, la mancata applicazione dell’Udi può benissimo corrispondere all’uso di di prodotti non certificati o non idonei. L’assenza di tracciabilità favorisce infatti il rischio – reale – che vengano impiegati dispositivi acquistati da canali paralleli, non ufficiali, a basso costo, o addirittura contraffatti. Prodotti che possono non essere sterili, contenere sostanze pericolose o non conformi alle normative europee. In più di un caso documentato, le vittime di complicanze gravi non sapevano nemmeno che tipo di prodotto fosse stato loro iniettato.

Infine, senza Udi vi è l’impossibilità di stabilire la catena di responsabilità medico-legale: se il dispositivo non è stato registrato, il medico può anche sostenere che il prodotto non fosse stato utilizzato, o che l’evento avverso sia dipeso da un altro fattore. Questo rende difficilissima ogni azione legale da parte del paziente o dei familiari in caso di danni gravi o decessi. In pratica, senza Udi, non c’è una prova oggettiva dell’intervento compiuto.

I casi recenti – come quello di Simonetta Kalfus, deceduta nel marzo 2025 dopo una liposuzione in una clinica privata a Roma, o di Margaret Spada, morta a 22 anni nel 2024 dopo una rinoplastica in uno studio non autorizzato – mostrano che la medicina estetica può avere conseguenze mortali quando si svolge fuori dai binari della legalità, della trasparenza e della tracciabilità. Non si tratta di medicina di “serie B”: si tratta di salute, con rischi anestesiologici, infettivi, tromboembolici e perfino tossici legati ai materiali utilizzati. E l’unico modo per controllare questi rischi in modo sistemico è sapere esattamente cosa è stato usato, su chi, quando, e da chi. Questo è esattamente ciò che il sistema UDI dovrebbe garantire. E che, se ignorato, lascia il paziente completamente esposto.

Se davvero la medicina estetica vuole essere considerata parte integrante del sistema sanitario – e non un far west parallelo dove valgono regole diverse – è ora che si adegui. L’Udi non è un orpello burocratico: è un requisito minimo di civiltà sanitaria.

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