Chiudete le medie
Tre anni buttati nel limbo cognitivo. La vera riforma da fare è chiudere la scuola media
"Entre les murs" (“La classe”) è un bel film francese di Laurent Cantet del 2008 (il tempo per un bambino che aveva cinque anni di aver fatto elementari e medie). Un anno in una scuola media. Alla fine, quando è il momento di decidere il futuro, una ragazzina (afro, ça va sans dire) risponde al prof che chiede un po’ petulante cosa avete imparato quest’anno: “Non ho imparato niente. Non voglio andare al liceo. Non si impara niente”. Tra la scuola media francese (collège) e la nostra “scuola secondaria di primo grado” non c’è gran differenza, dura un anno di più, con qualche svincolo in più. Non è migliore. Ma i francesi sanno fare bei film sulla scuola, invece da noi a settembre riparte “Provaci ancora prof!”, settima stagione. Il nocciolo della questione della scuola media, Francia ma soprattutto Italia, è in quel “non ho imparato niente”.
La scuola media unificata debuttò il primo ottobre del 1963, prima c’erano il ginnasio e l’avviamento commerciale. Un unico triennio, col bel senso democratico e formativo di portare tutti a quattordici anni, prima di decide (essere costretti a decidere) il futuro. Sarebbe stupido dire che non ha fatto il suo dovere. Poi però, nei decenni, la scuola media è diventata un buco nero educativo, un limbo didattico, una terra di nessuno della conoscenza. Per tanti motivi. Per dirne due: perché il sistema di formazione degli insegnanti, a tutt’oggi, non ha mai selezionato docenti specifici per affrontare quel tipo di percorso, quel tipo di età, quel tipo di “problematiche formative-cognitive”, come direbbe il Burocrate Pedagogico. Laureati in letteratura tedesca o astrofisici mancati sono andati a insegnare nella serie B dei licei in mancanza di altro. E in mancanza di un’idea di cosa significhi prendere un bambino/a (nessuno s’offenda) di undici anni e portarlo ai bordi dell’adolescenza intellettiva. Dall’altra parte dei banchi, gli undicenni in cinquant’anni (ci sono state riformicchie intermedie, ma non contano) sono parecchio cambiati. Non sono più bambini; sanno un mucchio di cose; spesso non sanno l’ortografia. Qualcuno ha capito, o ha mai insegnato agli insegnanti, cosa significa fare i prof alle medie, in un’età in cui non si sa se devi scaccolargli il naso o allacciargli le stringhe (non ridete: succede) o se devi trattarli come young adults prematuri?
E siamo alla maledetta parola magica di ogni estate: riforma. Al netto delle improvvisazioni della ministra Fedeli sull’obbligo a diciotto anni, la news è che dal prossimo anno inizierà la sperimentazione per ridurre gli anni delle scuole superiori da cinque a quattro. Alberto Asor Rosa, e per una volta si può essere d’accordo con lui, ha scritto su Repubblica: “E’ la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti”. Perché il problema, semplice ma serio, viene prima del liceo: sono le medie. Che senso ha accorciare di un anno le “superiori di secondo grado”, se prima ci sono stati tre anni di limbo? In cui non si è stati in grado né di insegnare i rudimenti verso un percorso liceale, né quelli verso un percorso tecnico professionale? E’ un caso che nel passaggio tra le medie e le superiori ci sia un livello di dispersione (abbandoni, bocciature) da quarto mondo? Dovrebbe essere il periodo in cui imparano un metodo, una personalità e le arti del trivio. Ma nessuno, a parte i soliti prof eroi, che ci sono (ma non si accede per concorso) sa farlo, sa che fare. Sa se è meglio insistere sulla sintassi o sull’inclusione sociale.
Così stanno lì tre anni, a beccarsi questa infarinatura di niente, di nozioni che “le riprenderete più avanti”, uguale per chi andrà al classico e chi scalderà un banco fino al momento di passare alla sezione degli aspiranti apprendisti o dei “Neet”. Indecisi in quell’età di mezzo. E sarebbe bello potergli dire, a settembre, ragazzi, finalmente abbiamo fatto l’unica riforma che vi serve: abbiamo condonato tre anni buttati alla vostra giovinezza.
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