La scuola è sempre più multietnica. Come andrà? Male
Si torna in classe e da quest’anno, in nome della riforma, la parola d’ordine sarà “inclusione”. Un bel film francese del 2008, “La classe” di Laurent Cantet ci ha già anticipato cosa succederà
A un certo punto scoppia un parapiglia, in classe. Sta per iniziare la Coppa d’Africa e Rabah, è marocchino, fa il pubblico elogio della “sua” nazionale. Boubacar invece è del Mali, di tutti è il più scorbutico (anzi “con grandi qualità, ma problematico sotto il profilo disciplinare”, come direbbero i pedagogisti). Il Mali non si è qualificato, orgoglio ferito, si litiga. C’è un altro ragazzo dalla pelle scura, però è antillano, è il più duro di tutti ma è l’unico che dice: “La mia Nazionale è la Francia”. Il prof di lettere, Monsieur Marin, è bravo e simpatetico. Cerca sempre di cogliere i segnali positivi, un rabdomante della didattica. Ma sulla Coppa d’Africa – insomma sulla vera identità nazionale percepita tra i muri di una Ecole de la République – la situazione gli scappa di mano. Marin insegna i congiuntivi, la metrica della poesia francese: ma a quale (futura) nazione si sforza di parlare?
Inizia il nuovo anno scolastico. Anno terzo della Buona Scuola, la riforma va finalmente a regime (in linea teorica). E con la Buona Scuola, al suo centro e sugli scudi del maistream pedagogico e del suo riflesso mediatico, la parola che sta al cuore di tutto. Idealmente, culturalmente, ideologicamente e pure programmaticamente: perché nei Decreti Attuativi tutto è già scritto. La parola è: inclusione.
Già oggi gli studenti
di origine non italiana ma con cittadinanza italiana sono 800 mila,
il 9 per cento,
il 60 per cento di loro
è nato in Italia
La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha firmato i decreti istitutivi dell’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e dell’Osservatorio per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura. Due tasselli essenziali per l’architettura della scuola italiana del futuro. Di come gestire le disabilità (un rebus contorto, e non è tutto oro quel che diventa disposizione di legge) ci si occuperà un altra volta. Limitiamoci agli alunni stranieri e alla “intercultura”, parola monstre, ça va sans dire.
Ci stiamo lasciando alle spalle un’estate complicata, allarmata. L’estate degli sbarchi e dell’invasione. Degli sgomberi e degli scoppi di razzismo. Degli stupri e dello ius soli. L’unica cosa certa – anche se non ci sarà da temere “per la tenuta della democrazia”, è che il numero di stranieri – o ex stranieri, o nuovi cittadini che dir si voglia – di seconda e terza generazione in Italia aumenterà. Portandoci a poco a poco a un meticciato sociale che probabilmente non arriverà ai livelli della Francia, della Germania, ma sarà sempre meno trascurabile. E la cartina di tornasole per capire come andranno le cose sarà sempre di più il sistema pubblico dell’istruzione. Non bastano l’ordine pubblico, la gestione dei flussi, i conti sulla manodopera necessaria. La cultura, quella intesa con la C maiuscola, non è utile alla bisogna. Il sistema educativo invece un ruolo lo giocherà. Seppure le aspettative riposte nella “scuola dell’inclusione” siano forse un po’ troppo alte, e le sorti progressive non così rosee, magnifiche. Nelle scuole italiane già oggi gli studenti di origine non italiana ma con cittadinanza italiana sono 800 mila, il 9 per cento del totale, il 60 per cento di loro è nato in Italia. Ci sono scuole nei grandi centri dove nelle classi il numero degli alunni di origine straniera è uguale o superiore a quello dei figli di italiani. Il comune di Baranzate, alle porte di Milano, che ha da tempo il record nazionale di comune italiano con più etnie censite (72) ha anche il record certificato (ministero dell’Istruzione e Fondazione Ismu) di comune col maggior numero di alunni stranieri nelle scuole: 53,4 per cento. La ministra dell’Istruzione non ha molte alternative al programma di “dare vita a una scuola in grado di valorizzare le diversità, inserendole in un sistema di valori comuni”. Del resto c’è l’articolo 3 della Costituzione, che fissa il principio di uguaglianza dei cittadini: “La velocità e la profondità dell’integrazione dipendono anche dalla scuola”, ha dichiarato Fedeli, “è grazie al percorso che le ragazze e i ragazzi con cittadinanza non italiana fanno a scuola che il nostro paese potrà contare anche sui loro talenti, sulle loro intelligenze”.
Buonissimi propositi e inevitabili, che però scontano un pregiudizio culturale che è un fattore di debolezza: includere, ma dentro a che cosa?
Il problema di gestire una scuola che sarà sempre più multietnica, i canoni pedagogici.
La mancanza
degli adulti,
il vero punto debole
In quale società, o progetto di società? Nelle “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri” (2014) del Miur si legge che “l’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia quella di una convivenza tra comunità etniche chiuse”. “Una molteplicità di lingue e culture sono entrate nella scuola. L’intercultura è già oggi il modello che permette a bambini e ragazzi il riconoscimento reciproco dell’identità di ciascuno”. Altrove si legge, a proposito della funzione docente, che “l’educazione interculturale non è una disciplina aggiuntiva, ma una dimensione trasversale, uno sfondo che accomuna tutti gli insegnanti e gli operatori scolastici”.
Funzionerà, può bastare? Bisognerebbe avere uno sguardo più ampio, uno sguardo capace di immaginare come potrebbe andare a finire. O perlomeno come sarà la scuola di domani.
La rissa multietnica (e tutto meno che “francese”) per la Coppa d’Africa avviene in un luogo chiuso. Un luogo-gabbia che vorrebbe essere accogliente e inclusivo, ma sembra una prigione. Una classe. Avviene in un film. “La classe” è il titolo italiano di un film del 2008 di Laurent Cantet, premiato a Cannes con la Palma d’oro e Oscar per il miglior film straniero del 2009. Il titolo originale è “Entre les murs”, tra i muri. Meno rassicurante. E’ un film che bisognerebbe (ri)vedere. Consigliato soprattutto ai nostri presidi e insegnanti, e ai riformatori della struttura buro-pedagogica ministeriale che, chiusi nei loro laboratori, progettano la scuola del futuro. Creano i concetti, le parole d’ordine, individuano i percorsi, sfornano le regole dei Pof e dei Pei. “Entre le murs - La classe” è ambientato in una scuola media (collège) del XX Arrondissement di Parigi. Dove i “mangia prosciutto e formaggio” sono minoritari. E’ girato quasi come un documentario, un po’ claustrofobico. La macchina da presa sempre stretta sui primi piani e i volti, il sonoro in presa diretta, sporco, il brusio dei ragazzi in costante sottofondo. Non si vede mai il cielo, non si vede la strada. Si vede dall’alto, come spiato dalla finestra della sala professori, il cortile grigio: i ragazzi con le felpe che giocano a calcio e fanno a botte, che si dicono qualche insolenza a sfondo sessuale, o etnico. Poi ci sono le riunioni in sala professori. Quelli appena arrivati e quelli scafati, quelli che vorrebbero andarsene. E schegge di vita in una classe, una sola classe. Niente psicologia, niente romanticismo. Niente tempo delle mele.
“Entre les murs -La classe” è un bel film e andrebbe (ri)visto. Se non altro perché racconta una scuola che non è troppo diversa dalle nostre. Perché è una prefigurazione di quello che potrà essere tra dieci anni la scuola italiana avviata alla multietnicità. Ma soprattutto perché l’esperimento pedagogico-sociale che racconta, quello di una scuola “dell’inclusione” come unico orizzonte possibile, è lo stesso che il sistema italiano della pubblica istruzione si sta avviando a compiere a sua volta.
Il film di Cantet racconta un anno di scuola. Si comincia con i volti dei professori, il primo collegio docenti, i vecchi e i nuovi si presentano. Normale, tutto normale, un po’ di rassegnazione. Il prof di storia, nuovo arrivato, dice al collega: dovremmo coordinare i programmi, tu cosa fai, cosa posso fargli leggere? Ho pensato agli illuministi. Il prof di francese lo guarda basito: ma se non sanno la divisione in sillabe? “Candide si legge da solo”. Ce la mette tutta, il nostro prof di francese, l’unico che vediamo in azione. Leggono Anna Frank: “La nostra vita non è così interessante”, è la risposta desolante. Come si può fare, in un orizzonte in cui l’unica mossa possibile sembra essere quella di abbassare il livello, di tener dentro tutto e tutti, di essere una accogliente istituzione della Republique, un servizio sociale? Cantet si limita a mostrare, ma non è difficile capire che al fondo c’è l’opposizione tra il buonismo e cattivismo. La regola e l’asticella alta o l’adeguamento al dato reale così com’è. “Credo che qui sia mio diritto chiederti di leggere”, dice il prof a Khoumba, che quest’anno ha i cazzi suoi, e non ne vuole sapere. Diritto di chiederti, non dovere di ottenerlo. Chiede ai ragazzi di fare un ritratto di se stessi: che fatica, che nulla. Lui incoraggia sempre.
Poi c’è il cattivismo, o presunto tale. “Non ne posso più, non ha nessun senso… Sono di una cattiveria, di una malafede… Restassero nei loro quartieri di merda… mica siamo cani”, sbotta uno dei prof ultimi arrivati. Riunione di metà anno: come sta andando? E’ impossibile fare lezione, non portano i libri, sono zero. Ce n’è uno più indisciplinato degli altri: che fare? Una nota di demerito? Sai che gliene frega. E istituire una patente a punti per ogni mancnza? Sì, e poi che ci fai? “Non siamo qui per punirli”, dice il nostro prof di francese. “Il tuo è solo quieto vivere. Meglio lasciarli lì, in fondo alla classe?”, lo gela un collega. Cambio di scena.
Cose che accadono in ogni scuola, non solo in Francia, non solo dove ci sono più etnie che banchi. Il tema silenziosamente, forse persino inconsapevolmente, messo in scena dal film non è innanzitutto l’inclusione. E’ il tema del rapporto, confronto e scontro, tra adulti e giovani. Ragazzi per cui non è più nemmeno questione di ribellarsi all’autorità. E’ una questione di diffidenza, di nulla da aspettarsi: “Ci volete solo punire, lei si vuole solo vendicare”. Il tema è la mancanza di adulti. L’incapacità di trasmettere non tanto valori, o concetti, ma l’appartenenza a un paese e a una cultura, un senso generale della realtà. Ma è una cosa che non si impara a fare coi programmi didattici, con l’applicazione di un codice di condotta. E’ un problema di qualità umana. Angelo Panebianco ha scritto di recente, a proposito dell’Italia, che quei docenti “di qualità” che ancora ci sono “non dovrebbero proprio esserci dal momento che da decenni… un intero paese, un’intera classe politica, e tutte le amministrazioni coinvolte (funzionari del ministero, Tar, eccetera) hanno sempre manifestato il più completo disinteresse per la qualità dell’insegnamento”. “Ciò che invece fa meraviglia (è questo il vero mistero da risolvere) è il fatto che ci siano anche, a dispetto dei santi, molti giovani bravi e preparati, nonché molti docenti bravi e preparati”.
Il film di Cantet ambientato
in una scuola media
del XX Arrondissement di Parigi. Quasi un documentario, un po' claustrofobico
In Francia gli insegnanti guadagnano di più, l’istituzione si è attrezzata prima che da noi per affrontare a suon di protocolli didattici i problemi sociali che anche da noi insorgono. Ma bastano a risolvere tutto le istruzioni per l’uso sull’accoglienza? Fare il Pof, rispettare le regole dell’inclusione per gli alunni Dsa e per gli immigrati? Evidentemente no, risponderebbe lo spettatore del film. E’ un problema di come un adulto, e la scuola in quanto tale, si pone, di quale modello positivo di sé e del suo ruolo sa proporre. “Ve lo concedo, è gente snob quella che usa l’imperfetto congiuntivo”, dice il prof cedendo (buonismo?) a un’estraneità alla lingua e alla cultura francese latente ed esibita. “Perché fa gli esempi usando il nome Bill?”. “E’ il nome di un presidente americano…”. “Lei usa solo nomi di bianchi ricchi”. Il prof passa agli esempi con un nome africano.
Lavora di dettagli, Cantet. Non giudica e non suggerisce. Durante l’anno la situazione degenera. Succede ad esempio questo. Un giorno, dall’ultimo banco, Boubacar chiede a bruciapelo: è vero che le piacciono gli uomini? La reazione del prof è da europeo-moderno-aperto: perché me lo chiedi? Allora costituisce un problema per te… No, non lo è per me… Eccetera. Alla fine chiude la discussione come dovesse scusarsi: no, non è vero. Tenendosi però la convinzione che sia normale – normale – questa uscita dai ruoli, questo gioco di ruolo. Poi un giorno c’è una litigata di classe, si alza la voce, Monsieur Marin prova a riportare ordine, un alunno dei più difficili lo apostrofa, gli dà del tu. E il prof lo trascina dal preside: la situazione è grave, mi ha dato del tu. Alla fine scatterà per Souleymane la punizione più radicale, quella che mette a rischio la sua stessa permanenza in Francia: l’espulsione dalla scuola. Perché in Francia funziona così.
Cantet non giudica. Ma il dettaglio bisogna notarlo, è cruciale: è lo iato tra un buonismo paritario che è solo di facciata, e perciò inconsistente, e il suo inevitabile, automatico ribaltarsi nell’autoritarismo punitivo. In una scuola in cui un prof accetta come normale, in fondo legittima, la domanda sui suoi gusti sessuali, che invece è un insulto premeditato, non sarà però accettata la seconda persona singolare. Si permette tutto, ma si punisce a vanvera. Il punto non è la via di mezzo, o la giusta procedura. Il punto è la finzione di un rapporto pedagogico, o chiamiamolo come meglio ci pare, basato su un’assenza di realismo camuffata dal ricorso ai regolamenti, ai codici. L’evidenza è la mancanza di soluzioni, le spalle al muro, quando non c’è più spazio di manovra. Ma è così, da tempo, anche nelle nostre scuole. Dove non si richiama mai nessuno, nemmeno si punisce, non si pretende. Poi però c’è un tasso di bocciati (o di abbandoni, che è la stessa cosa) che sgomenta. E’ una questione di selezione del personale? Il problema di gestire una scuola che sarà sempre più multietnica non può essere ridotto al canone di un’inclusione che esclude, quasi per principio, ogni proposta in positivo con cui misurarsi. Ogni possibilità di accedere a una cultura e a una sensibilità, magari diverse da quella di provenienza, ma accattivanti, migliori. O almeno interessanti. Per dirla con una frase letta in un articolo di Tecnica della scuola: “Una scuola inclusiva, che vuole conoscere, ricercare e valorizzare tutte le differenze degli alunni, dovrebbe fare dell’eterogeneità a tutti i livelli la norma nella composizione dei gruppi. Al contrario, classi o gruppi di serie A e B stabilizzeranno ancora di più le disuguaglianze e bloccheranno, nel bene e nel male, i destini degli alunni”. Alla fine del film, una delle ragazze più introverse della classe dice al suo bravissimo, eroico professore: “Io non ho imparato niente. Non voglio andare al liceo. Non si impara niente”. La classe di Cantet è “dentro ai muri”. Ha l’ambizione di includere, alla fine rinchiude.
Il Foglio sportivo - in corpore sano