Sull'Istruzione non tutti i riformismi sono uguali
Il ministro Valeria Fedeli dovrebbe prendere spunto dal suo collega francese Blanquer
Nella Francia di Macron si è molto attenti al numérique, al digitale e al digitabile, tanto che si è parlato di una Repubblica start-up, di una mistica della trasparenza di origine protestante (Régis Debray); però Jean-Michel Blanquer, il ministro dell’Education nationale scelto dal presidente jupiteriano, dice di lavorare per un pieno ripristino dell’autorità e della disciplina, contro il livellamento verso il basso e la ideologia egalitaria che lo produce, per adeguare a criteri severi la selezione oggi annullata dal facilismo e dall’idea che a scuola più che formare con lo studio cittadini liberi si debba per progetti lasciar fiorire la personalità degli allievi, e per intanto si pronuncia per il recupero delle lingue morte, della lingua francese e dello studio delle matematiche, e – guarda un po’ – contro l’uso dei telefonini intelligenti nelle classi. E’ un programma molto vasto, e sarebbe imprudente far credito senza riserve a chi lo enuncia (tanto più che la clausola proibizionista sui telefonini in classe ha il sapore di una battaglia perduta in partenza nonché giusta, come spesso succede). Ma Alain Finkielkraut, il filosofo considerato néo-réac per il suo impegno a favore di un repubblicanesimo liberale che difende identità e cultura dall’assalto multiculturalista, sostiene, lui che non è in politica di bocca buona, che c’è una speranza, che Blanquer non è, per usare una celebre formula di Renaud Camus, scrittore irriverente che si scagliò contro la deculturazione, “un Amico del Disastro”.
Non ci si può spingere a dire che Valeria Fedeli, nostra ministra della Pubblica istruzione, sia Amica del Disastro, anche per via della sua licenza di telefonino esibita di recente come testimonianza di spirito progressista, nonostante ricerche serie affermino che i migliori risultati d’istruzione arrivano dove non sono ammessi smartphone e tablet. Però la sua recente intervista, che grondava di giusta soddisfazione per la copertura di tutte le cattedre alla ripresa, per la stabilizzazione di un numero di supplenti inferiore al passato da settembre a giugno – d’accordo, ci mancherebbe, siamo o no il partito dell’ottimismo? – era non dico reticente ma muta sulle questioni appena elencate che sono al centro delle preoccupazioni del suo omologo francese. Non è forse consigliabile limitarsi a fare la conta degli insegnanti, dei concorsi, dei presidi o come si chiamano oggi, in un quadro di demografia calante e di immigrazione crescente, e assumere come vittoria della buona scuola una maggiore collaborazione con i sindacati. Bisognerebbe aggiungere qualcosa sui risultati, sull’evidente insufficienza della formazione degli alunni e dei loro docenti (con eccezioni di nicchia), sul clima di selezione alla rovescia che premia tutti e consegna a élite con forte retroterra sociale ogni possibilità futura eccetera. Uno amerebbe sapere dal ministro o dalla ministra se le cose vadano bene male o maluccio, se le si possa correggere e in quali tempi e in quali forme, e magari che senso ha la scuola nei suoi diversi stadi, quali ne siano i contenuti irrinunciabili e i criteri di valutazione dei risultati in relazione appunto alla deculturazione, cioè alla difficoltà di leggere, scrivere e far di conto, e concentrarsi per imparare il tutto, combinando istruzione generale diciamo così umanistica e specializzazione o preparazione professionale, deculturazione che è un elemento ormai storico, plurigenerazionale, del paesaggio scolastico italiano e non solo italiano secondo le indagini Pisa e altre. Non è una pretesa assurda. Anche Blanquer non annuncia una rivoluzione, anzi scongiura di non usare quel termine, ma riforme e correzioni, questo sì, e dà almeno un’idea del senso di marcia. Non tutti i riformismi market oriented e web oriented sono uguali. Ce n’è che sono più uguali degli altri o meno diseguali.
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