La retata di docenti che si potrebbe evitare eliminando i concorsi
A Firenze 29 misure cautelari. L'accusa: “Sistematici accordi corruttivi tra professori di diritto tributario finalizzati a rilasciare le abilitazioni all’insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale”
Una retata di professori di diritto tributario, perché no? Una boccata di purissima aria manettara, il lunedì mattina, fa sempre bene. Sono pur sempre colletti bianchi, e dei più odiati, baroni universitari. Ed è chiaro che piazzare un amico nel settore delle cose tributarie si offre alle illazioni più ruspanti: se c’è tributo, c’è evasione, e c’è quattrino. Non è come piazzare una cattedra di filologia. Però basta guardare la velina-comunicato diffusa tramite agenzie, che ieri mattina i siti di Corriere e Repubblica pubblicavano identica, senza nemmeno cambiare il sommario, per farsi qualche domanda: “Sistematici accordi corruttivi tra professori di diritto tributario finalizzati a rilasciare le abilitazioni all’insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”. E’ l’ipotesi accusatoria della procura di Firenze: 29 misure cautelari, 7 arresti domiciliari e 22 docenti interdetti dall’insegnamento per 12 mesi. E’ indagato persino Augusto Fantozzi, ex ministro con Dini e con Prodi e luminare della materia. Ci sono le intercettazioni tra i prof, ça va sans dire: “Ogni professore aiuta l’altro, perché è chiaro che se il professore di procedura civile dice: ‘Scegliamo il miglior tributarista in assoluto’, rischia che poi il tributarista dica: ‘Scegliamo il miglior processualista in assoluto’ e che quindi… eee…”. Il “vile commercio dei posti”, un bel titolo. Bisognerebbe però spiegare, per quanto si possa spiegare un simile groviglio, che il concorso vero è poi un altro, non questo di abilitazione, la cui procedura è oggi nazionale. La commissione che decide sulle abilitazioni è formata con sorteggio tra gli ordinari della materia. Il ricercatore abilitato (o il docente che intende passare a una fascia superiore) deve comunque poi partecipare a un concorso, spesso riservato solo a interni di un certo ateneo – il che è la vera selezione, o se volete il trappolone. L’abilitazione da sola non dà diritto a nulla. Ma per carità, siccome siamo in Italia, sono tutti presunti colpevoli.
Si può anche tralasciare il fatto che 7 domiciliari e 22 professori interdetti (e se per sbaglio non c’entrano, chi lo spiega agli studenti che avranno perso un anno di corsi?) forse sono eccessivi. Ma basterebbe riflettere – anche i pm potrebbero farlo – sul vero problema dei concorsi universitari: il fatto che la loro finta forma centralizzata e super partes genera esiti esattamente contrari, ma non per questo (o non sempre) illegali. Un agile volume di Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri (rispettivamente docenti di scienza politica, sociologia ed economia aziendale) appena edito dal Mulino, “Salvare l’università italiana - Oltre i miti e i tabù”, aiuta a farsi un’idea. Non si parla, direttamente, dei concorsi. Ma del “fallimento delle politiche di autonomia universitaria”. I tre spiegano che le corporazioni accademiche “hanno governato gli atenei con logiche perlopiù meramente distributive, basate su scambi e patteggiamenti”. In sostanza, la pretesa di controllo centrale (le commissioni di concorso, ad esempio) è malamente compromessa da due fattori: da una parte l’impossibilità di eliminare i rapporti di consorteria o di forza tra accademici; dall’altra la (zoppicante) autonomia per cui sono gli atenei a scegliere i loro docenti. Tutto ciò crea più pasticci che trasparenza. Non siamo nel paese della Ivy League, ma invece di scatenare indagini che difficilmente, c’è da prevedere, arriveranno a condanne, essendo assai aleatorio il reato di “rilascio di abilitazioni all’insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori”, basterebbe introdurre un vero e semplice criterio di autonomia: gli atenei siano gestiti con logica privata e messi in grado di assumere – magari con contratti a tempo – i docenti che vogliono, scegliendoli per competenza e dal mercato. Poi verranno giudicati, gli atenei, dai risultati. Sarebbe tanto più semplice, invece di scatenare i pm.
Il Foglio sportivo - in corpore sano