Perché la fuga di cervelli non c'entra con l'università dei baroni
E' la scarsa attrattività dell’istruzione italiana che fa scappare i ragazzi all'estero
Roma. Un paese che lascia alla magistratura anche la valutazione delle scelte che riguardano una parte considerevole della sua classe dirigente (alla quale appartengono i docenti universitari) è oggettivamente entrato in una spirale di non ritorno. Soprattutto se la decisione di valutare il merito attraverso l’anticorruzione diventa l’ennesimo presidio di legalità morale che giustifica un fatto che in altre parti del mondo fa parte della vita reale: la scelta dei nostri figli di studiare o lavorare all’estero.
La corruzione negli Atenei con l’alibi tutto italiano della fuga all’estero dei nostri ragazzi non c'entra assolutamente nulla. Continuare ad alimentare questo pericoloso mainstream giustifica un dato che non ha eguali nel mondo occidentale: in Italia 2,3 milioni di ragazzi non vanno a scuola e non lavorano. E non è colpa né della crisi economica né dei baroni.
L'Italia, che è al 43esimo posto nel mondo per indice di attrattività, ha perso appeal negli anni a causa anche a causa di una deriva antindustriale (la fabbrica è sporca e cattiva), che dagli inizi degli anni Settanta ha smantellato prima a livello ideologico e poi materialmente i luoghi che consentivano alle Università di fare ricerca e produrre innovazione (Giulio Natta per esempio vince il Nobel studiando a Milano, non nella Silicon Valley). Se a questo aggiungiamo la parcellizzazione degli Atenei in ogni angolo del Paese, perché accanto a un ospedale era bene che le città italiane avessero anche una Università per produrre laureati di cui il mercato ormai non sa più che farsene, abbiamo la quadratura del cerchio.
Il problema dell’Università italiana non sono i baroni. Nelle grandi Scuole giuridiche di Napoli, Roma e Torino esistevano i baroni, che selezionavano i propri allievi, facevano emergere i migliori e l'allievo superava sempre il maestro. E i criteri di selezione erano molto simili a quelli di oggi. La differenza la facevano non solo la qualità del selezionatore e quella del selezionato, ma il fatto che l’Università era una cosa seria. L’Università era un elemento di valore, che dava credibilità al docente e preparava lo studente al percorso successivo. Quando la quantità ha cominciato a prevalere sulla qualità (si vedano il numero spropositato degli Atenei pubblici italiani, fino alla riforma Berlinguer che avrebbe dovuto aumentare il numero dei laureati per equipararli a quello degli altri Paesi europei) il risultato non poteva che essere quello che effettivamente abbiamo davanti agli occhi: territori ormai desolati e privi di alcuna identità che si contendono poche migliaia di studenti. Che, se possono, scelgono giustamente di andare altrove.
A orientare le scelte universitarie degli studenti, infatti, pesano sempre di più le possibilità occupazionali offerte non solo dal percorso di studi da intraprendere, ma anche da un livello di servizi differenziato e competitivo nel territorio che ospita gli Atenei. Ecco, quindi, ad esempio che nonostante le Università meridionali perdano quote consistenti di studenti iscritti, il Politecnico di Bari e l’Università di Salerno al contrario li aumentino. La qualità dell'offerta formativa trova consistenza e ragione d'essere nella interazione molto forte tra il sistema accademico e le realtà imprenditoriali, particolarmente incisiva come nel caso del Distretto aerospaziale pugliese, che costituisce una eccellenza nel sistema della ricerca e della innovazione europea.
Secondo i dati diffusi dalla Conferenza dei Rettori la riduzione drastica dei finanziamenti ordinari e degli investimenti in ricerca hanno fatto perdere negli ultimi anni al sistema accademico 10 mila posti da docente e ricercatore, pari al 13%, contro una diminuzione media del 5% nella Pa. Eppure a giudicare dai numeri delle immatricolazioni diffusi recentemente dal ministero dell’Università, la diminuzione totale dei nuovi ingressi nell'ultimo quinquennio si attesta su un modesto -3%. Sono le preferenze degli studenti che di fatto stanno ridisegnando la geografia accademica. Sempre di meno studiano giurisprudenza (-35%), economia (-6,2%), architettura e ingegneria civile, mentre sono in crescita le iscrizioni ad ingegneria dell'informazione (+27,9%) e scienze informatiche (+36,7%).
Le indicazioni degli studenti, insomma, stanno definendo il perimetro nel quale il sistema accademico deve (ri)collocare la propria offerta formativa, che ha bisogno di essere adeguata alle rapide esigenze del mercato del lavoro, cambiato radicalmente nell’ultimo decennio. Perché l'Università e il suo territorio siano percepiti come un valore aggiunto e un differenziale competitivo per avere chance maggiori in un sistema in rapidissima evoluzione, occorre uno sforzo sinergico tra mondo accademico, sistema delle imprese e Pubblica amministrazione, che vede purtroppo ancora una volta una sostanziale differenza tra il Nord e il Sud del Paese.
A Milano, ad esempio, tutti gli stakeholders stanno ragionando sul futuro delle aree Expo per dare vita ad un grande contenitore in grado di liberare risorse ed energie per la ricerca, e fare di quello spazio il centro europeo della robotica e dell’innovazione, che in Italia può contare già su un Polo di eccellenza a Pisa con la Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna.
Il Sud, nonostante le tante eccellenze accademiche, sconta invece problemi atavici come la scarsa efficienza della burocrazia e un sistema economico poco meritocratico. Questi fattori negativi convincono i ragazzi a scegliere altri Atenei in Italia e all’estero, dove la qualità dell'offerta formativa si coniuga con le possibilità del territorio di ragionare ed esprimere una visione unica del futuro. Investire su una nuova e non più indifferibile relazione virtuosa tra gli attori del territorio resta la precondizione che l’Italia (e il Sud soprattutto) ha per attrarre talenti, ed evitare la fuga inesorabile di chi sceglie giustamente altri paesi per sviluppare le proprie competenze.
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