A scuola contano le competenze. Ma cosa vuol dire?
L’errore di pensare che a salvare l'istruzione scolastica basteranno modelli, griglie e “compiti di realtà”
E’ la parola d’ordine in tutti i documenti che riguardano la scuola. La ritroviamo in leggi, indicazioni, corsi di formazione. E’ l’incubo di tanti docenti. L’angoscia che aumenta proporzionalmente al salire del grado d’istruzione. Da quest’anno scolastico sarà obbligatorio certificarle. Di cosa parliamo? Delle competenze. Tra i banchi e in Viale Trastevere ci si riempie la bocca da tempo, salvo poi essere indietro anni luce sull’argomento. Proliferano costosissimi corsi di formazione per i docenti che sul tema arrancano faticosamente. I politici danno per scontato che ormai nel sistema scolastico nazionale la pratica di formare e certificare veramente competenze sia già a regime e ben integrata. Invece il problema competenze nel mondo scuola italiano è drammatico perché intriso di confusione e posizioni ideologiche. Proviamo brevemente a far chiarezza.
La parola competenza non è la grande scoperta dell’ultimo decennio e non riguarda, originariamente, il mondo della scuola. E’ il 1973 e lo psicologo del lavoro, l’americano David McClelland, famoso per i suoi studi sulla motivazione e sul successo professionale, affermava come i soli test scolastici e attitudinali non potevano delineare con sicurezza il profilo di un lavoratore di successo (da questa base partiranno i recenti studi sul capitale umano dell’economista James Heckman). Serviva guardare altro. Di qui nasce il concetto di competenza. In Italia il termine arriva verso la fine del Novecento imponendosi nei primi anni del nuovo secolo grazie alle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006.
Ma cos’è una competenza? Definizioni ce ne sono di autorevoli, basti leggere Ralph Tyler, Olivier Reboul e in Italia Giuseppe Bertagna o Rosario Mazzeo. La competenza è il tratto tipico della persona in azione, capace di rispondere alla pluralità delle sfide che la realtà impone con libertà, originalità, apertura, sfruttando e utilizzando in maniera dinamica e critica il suo sapere e il suo saper fare. Alle nostre latitudini invece, i genitori dovrebbero riprendere da scuola i minori di quattordici anni, disperati dal non poter rientrare a casa con il primo amore o provare il brivido fumoso di una sigaretta aspirata furtivamente. Ma questo è un altro, penoso, e speriamo superato, discorso.
Si diceva che il termine competenza o competente è confuso. Due (almeno) gli ordini d’errore: da un lato concepire la competenza distaccata o addirittura alternativa al sapere (ai contenuti per essere molto chiari); dall’altro pensare alla competenza come riferita a qualcosa e non a qualcuno. Su queste due storture si sono costruite le enormi difficoltà che oggi, ovunque, si incontrano. Pensare la competenza come alternativa al sapere oltre a essere gravemente sbagliato non è indicato in nessun documento ufficiale. La competenza ha come base i contenuti che devono essere precisi, approfonditi e vasti. Non è possibile che molti studenti, dopo tredici anni di scuola e tre di studi universitari arrivino a stendere tesi di laurea “disarmanti” (come autorevoli ricerche documentano). Formare persone competenti è sicuramente doveroso da parte della scuola, soprattutto quella dell’obbligo. Questo però esige un ripensare tutta l’istituzione. L’errore sin qui fatto è stato quello di pensare di risolvere il problema aggiungendo modelli, griglie e compiti di realtà (quali sarebbero dei compiti di realtà per il greco al Liceo Classico?) per arrivare a sviluppare e certificare competenza. L’alunno deve incontrare un testimone (lo diceva Paolo VI), un magister (un di più), un docente competente perché innamorato della sua materia, unico nel trasmetterla, capace di suscitare fascino (quanti hanno intrapreso una precisa carriera professionale e si sono tuffati nella realtà grazie al fascino di un docente?). Occorre liberare la scuola dai compartimenti stagni, dai protocolli asfittici, rischiando sulla libertà dell’individuo. Realizzando quello che Albert Einstein nel 1936, prima di tutti, indicava profeticamente come compito della scuola: insegnare a vivere.
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