Arriva l'ennesima riforma della Maturità. Ma l'esame di Stato ha ancora senso?
Eliminata la terza prova, maggiore attenzione al curriculum dell’alunno, griglie di valutazione nazionali per gli scritti. Una circolare del Miur per cambiare ancora. Obiettivo: promuovere tutti
Non è raro che fra infinite parole le circolari ministeriali contengano anche delle idee, nel senso più nobile e generico di visioni del mondo e degli strumenti atti ad affrontarlo; vale anche per la circolare che quest’oggi il Ministero dell’Istruzione ha inviato alle scuole, contenente le disposizioni per l’Esame di Stato della prossima estate. Questa nuova Maturità – che, se non fosse un po’ troppo simile alla vecchia potrebbe essere chiamata “Maturità del cambiamento” – può dunque essere divisa in tre macrostrutture: le buone idee, le cattive idee, e quelle così così, che dipenderanno estremamente da come verranno tradotte in pratica.
Le cattive idee hanno a che fare anzitutto con il ritorno al passato, interpretato come scorciatoia semplificatrice. Non è bene che venga abolita la terza prova, vilipesa dai quotidiani come “quizzone” quando invece, prevedendo tante domande di quattro materie cui dare brevi risposte, favoriva la capacità di sintesi, una certa ampiezza di vedute e quel sano nozionismo di base senza il quale uno studente finisce per sentirsi in diritto di non studiare più. Né è una buona notizia apprendere che il monte ore di alternanza scuola/lavoro non costituisce più requisito per l’ammissione. Sia perché ciò ingenererà la reazione stizzita di migliaia di alunni che per conseguirlo hanno sacrificato pomeriggi o giorni estivi negli scorsi due anni, sia perché di fatto questa mossa fa seccare e cadere quest’ormai vecchia novità della Buona Scuola. Il guaio dell’alternanza scuola/lavoro è stato che per tutti questi anni ha vissuto su un doppio binario: da un lato istituti o classi che la praticavano seriamente, traendone qualche competenza in più su come organizzarsi nel mondo reale e sulle attitudini collettive e individuali, magari addirittura divertendosi con la simulazione d’impresa; dall’altro istituti o classi che la praticavano tanto per, all’unico scopo di mettere insieme il numero di ore indispensabile, oramai inutile. Silurarla così significa che un’istituzione dello Stato si è arresa all’andazzo, riconoscendo ai suoi dipendenti e ai suoi iscritti un margine d’azione sufficiente a fare ostruzionismo ogniqualvolta dall’alto arriveranno indicazioni che non si avrà voglia di seguire. Non è un bel precedente.
In tanto tagliare l’hanno fatta franca tre tipologie di prova, su quattro esistenti, per le sette tracce d’Italiano (la prima prova scritta cadrà il 19 giugno, c’era tutto il tempo per emendarla in modo più drastico). Rimangono in vita così l’analisi del testo, tipologia A; l’analisi e produzione di un testo argomentativo, tipologia B; e tipologia C, la riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità, che un tempo si chiamava “tema”. Di per sé nessuna di queste tipologie è letale ma tutte risentono, sin nella loro stessa formulazione, di una ben radicata malattia dell’istruzione italiana, particolarmente acuitasi con le ultime riforme dell’Esame di Stato: la smaniosa ambizione che gli studenti scrivano in una lingua artificiale da brigadieri, lo scuolese, che è poi la stessa in cui sono scritte le tracce e definite le tipologie; e che da questa capacità circense dipenda una buona parte della valutazione di un ragazzo al quale, entrato alle superiori senza saper esprimersi, ne esce persuaso al dovere di esprimersi male.
Quest’ultima, se il passato non inducesse allo sconforto, avrebbe potuto venire accolta fra le idee così così della circolare. La prima delle quali, discussa quando emerse sotto il precedente governo e ora passata in cavalleria, è l’ammissione in via eccezionale agli esami con un’insufficienza allo scrutinio. Originariamente partorita come ammissione con la media del 6, e non con una pagella immacolata da insufficienze, questa soluzione di compromesso sarebbe una buona idea se servisse ad ammettere un’inveterata ipocrisia del sistema: tirar su i voti dei candidati dal 5, dal 4, dal 3 alla sufficienza in qualsiasi materia pur di non pregiudicare l’ammissione alla Maturità. Si presagisce invece che, messa così, con l’obbligo per il consiglio di classe di circostanziare la deroga per ogni voto inferiore al 6, la linea di principio si tramuterà nella tendenza all’amnistia per risparmiarsi qualche scartoffia. Vedremo. E vedremo anche come verrà maneggiata l’innovazione forse più interessante: l’ibridazione della seconda prova, che magari allo scientifico potrebbe portare a un compito misto di matematica e fisica. Ciò può significare sia partorire un mostro, in cui ogni materia pesi per una parte del voto singolo, sia riconoscere che la distinzione in materie è – non solo nelle scienze – pretestuosa, poiché il sapere è onnivoro e si autoalimenta crescendo in tutti i suoi settori interconnessi, amalgamati.
Detto questo, va dato atto che le buone idee sono almeno tre. Anzitutto la maggiore attenzione al curriculum dell’alunno, che si traduce in un maggior peso del triennio nel complesso che passa dal garantire un massimo di 25 punti a un massimo di 40, su 100. Tre anni di lavoro valgono dunque quasi metà esame, ed è giusto; non tanto per salvaguardare gli alunni bravi da occasionali rovesci in sede d’esame (un mal di testa, l’emozione, l’imponderabile commissario stronzo) quanto per evitare quei mercanteggiamenti per limare i voti delle prove alla luce dei punticini di credito lasciati per strada negli anni precedenti. Così, invece, diventa preponderante la formazione dell’alunno nell’intero triennio di cui, un tempo, alla Maturità si era tenuti a ricordare più o meno tutto il programma.
A maggior ragione sono una buona idea le griglie di valutazione nazionali per le prove scritte, che toglieranno indipendenza agli istituti ma prendono atto del male intrinseco della Maturità in centesimi: una disparità inaccettabile nei voti fra diversi licei e, com’è noto, fra diverse aree geografiche, così che sovente il 100 partorito in Puglia valga grossomodo un 85 lombardo. Queste griglie sono una presa di coscienza e forse (molto forse) un primo passo verso una valutazione unificata dell’intero esame, affidata magari a una commissione centralizzata, magari composta da docenti universitari e loro assistenti chiamati a valutare esclusivamente prove scritte. Metodo macchinoso, indubbiamente, ma che permetterebbe di replicare a modo nostro il modello inglese e di utilizzare la valutazione oggettiva degli studenti, o unificata quanto meno, per mettere in fila il talento di chi si affaccia al lavoro o all’università, oltre che l’effettiva resa delle singole scuole.
Piacerà, scommetto, agli specialisti il raddoppiamento dei testi da poter commentare in una delle famigerate tipologie della prima prova. Passare da uno a due potrebbe non sembrare gran cosa ma sarà sufficiente a farla finita con le solite polemiche sulla scelta di testi di autori inseriti in punti del programma in cui i prof non riescono mai ad arrivare (com’è stato per Caproni un paio d’anni fa), senza mai considerare che per commentare un testo non c’è bisogno di averlo studiato prima, basterebbe saper leggere. Da quest’anno, chi vorrà commentare un brano di un autore non affrontato in classe potrà dimostrare la propria elevata alfabetizzazione a cuor leggero, consapevole di avere la valida alternativa di commentare invece un autore precedente: poiché – e qui credo si veda la saggia mano di Luca Serianni, capo della commissione di esperti che ha elaborato le nuove linee guida sulle tracce – i due testi saranno scelti fra quelli prodotti a partire dalla significativa data del 1861 (a beneficio dei maturandi medesimi, specifico trattarsi dell’Unità d’Italia). Non significa solo che ci si potrà rifugiare nel Verismo o in Pirandello, se proprio si vuole andare sul sicuro, ma che si tenta di istituzionalizzare anche i contenuti dell’Esame di Stato ricorrendo a un barlume di letteratura nazionale.
Proprio questo assunto, tuttavia, rivela il punctum dolens di tutta la faccenda. Nonostante le ottime intenzioni del Ministero – che ha annunciato anche una campagna web di formazione per i commissari e un servizio di faq per gli alunni abbastanza spavaldi da avanzare dubbi – la riforma permanente dell’Esame di Stato lo depriva di solennità o, più modestamente, crea un frastagliamento nella formazione degli italiani, suddivisi in generazioni sempre più brevi quanto al modo in cui sono stati congedati dal mondo dell’istruzione. Quante volte è cambiato l’Esame dalla gran riforma del ’99? E perché nei trent’anni precedenti ci si era assestati su uno svolgimento che la legge medesima indicava come provvisorio? Soprattutto, il vero scandalo sulla riforma della Maturità non ha a che fare con gli intenti più o meno commendevoli della circolare di quest’oggi, ci mancherebbe: sta piuttosto nel fatto che nel 1923 Gentile aveva introdotto quest’esame allo scopo di non farlo superare, cioè di selezionare quei pochi che avevano frequentato la scuola con profitto; di recente, indipendentemente dalle formule, la Maturità è stata svolta per essere passata, con percentuali di successo che rasentano un ridicolo 100% e che rendono inutile, di fatto, ogni tentativo di riformarlo, compreso questo.
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