Brescia, scuole medie Giovanni Pascoli, dove un professore si è suicidato il 22 maggio (LaPresse)

Perché si suicida un professore

Maurizio Crippa

Molti, troppi, i casi di cronaca. Ognuno col suo mistero. C’entrano il disagio del ruolo, la perdita di autorità cui ci siamo assuefatti. Ma c’entra il disagio di essere adulti di fronte a quegli “occhiacci” che scrutano e chiedono. Un allarme sociale da non trascurare

Via dalla pazza classe”. È il titolo di un libro recente di Eraldo Affinati, scrittore e appassionato professore, infatti il sottotitolo è: “Educare per vivere”. Il libro di Affinati non c’entra con il tema di questo articolo se non per ciò che il titolo evoca – scappare; luogo non sano – e per un dettaglio. Esistono molti insegnanti che sono diventati scrittori, o coltivano da sempre questa seconda attività: parallela oppure intrecciata con la prima, da Pennac a Starnone a D’Avenia. Ha a che fare con una inclinazione umanistica della professione e non è detto che sia una via di fuga da una scuola vissuta come frustrante, o peggio priva di senso (“pazza”). È solo una notazione a margine: l’argomento di queste righe è un altro. Ci sono troppi casi di cronaca di professori che “via dalla pazza classe” ci sono andati in un modo diverso. Si sono tolti la vita. Professori suicidi, insegnanti suicidi a causa del lavoro. Ovvio, non si può mai sapere di gesti così. Ma la scuola c’entra. L’ultimo il professore di 53 anni di un liceo di Napoli, si è sparato con una vecchia pistola che teneva in cantina. Era agli arresti domiciliari per un’inchiesta su suoi presunti (e ora che per legge le indagini saranno chiuse, tali rimarranno) rapporti sessuali con due studentesse minorenni. Gli studenti e le famiglie hanno fatto una fiaccolata per ricordarlo, e tutti lo hanno ricordato come un uomo integro. Avrebbe potuto avvenire anche in un altro ambiente, ma la scuola è un lavoro diverso. L’integrità dell’insegnante non è un corollario, un sospetto come quello annienta l’essenza stessa di ciò che si è.

   

E’ un lavoro usurante, in certe condizioni. La settimana scorsa si è tolto la vita un preside di Venezia, anzi era dirigente scolastico di più istituti. Aveva confidato: “Sono stanco, arcistufo: a scuola mi stanno attaccando tutti, genitori e docenti”. Perché da mesi era oggetto di una diatriba aspra, una campagna di attacchi da parte di famiglie e colleghi per scelte inerenti alla gestione della scuola. Così “arcistufo” da farla finita? Non si sa. Ma tre giorni dopo era organizzato uno sciopero contro di lui. Ad personam. L’Associazione dei presidi da tempo denuncia la pressione pericolosa cui è sottoposto chi ha responsabilità in un contesto complicato. La Corte dei Conti ha documentato che il mondo della scuola è quello che presenta il più forte aumento di conflittualità in ambito amministrativo, civile e penale.

 

Qualche tempo fa è stata la volta di un professore di scuola media: si è impiccato in palestra, a Brescia. Secondo un’indagine aggiornata al 2017 del giornale online Orizzonte scuola i suicidi di insegnanti in Italia erano stati 22, età media 51 anni. Il sito cita Francia e Gran Bretagna come gli unici due paesi europei ad aver valutato il rischio di suicidio nella professione, indicandolo come più elevato rispetto ad altre. La scuola è sempre più un luogo di scontro, e spesso di intime solitudini. Gli episodi di insegnanti minacciati o aggrediti, anche da genitori, sono in aumento. Ci si può fare sociologia. La notazione più facile è la perdita di prestigio sociale dell’insegnante. Che va di pari passo con retribuzioni infime che ne sono lo specchio, nonché la causa di fuga di tanti – a meno di una forte vocazione, quasi da missionari laici, “educare per vivere”, appunto – e di un lavoro vissuto da altri come frustrante. C’è la generale perdita di autorità. Ma viene dal Sessantotto, pertiene a una generazione che sta andando in pensione e che a scuola inizia ad accompagnare i nipotini. Poi c’è la generazione successiva, quella che i figli li porta a scuola adesso, da questo punto di vista la peggiore di sempre: nel rapporto apprensivo-coercitivo con i figli, che va di pari passo con un atteggiamento di superiorità nei confronti degli insegnanti: sappiamo noi, esigiamo noi, valutiamo noi, compreso il vostro lavoro di prof. Una versione specifica dell’avversione per la competenza. Sono fatti su cui dovrebbe esserci un allarme sociale. Non allarmismo sociale.

  

Allarme sociale che invece manca: perché se è così debole, fragile, sotto attacco la comunità professionale che dovrebbe invece essere la più centrale, tutelata (persino pagata) di una società, quella che ha nelle mani per una media di cinque ore al giorno il futuro dei giovani, il rischio che crolli tutto è enorme. Eppure, bastano queste letture sociologiche del problema? La radice del disagio nessuno la sa, ma esiste, e forse è rintracciabile tornando all’inizio: agli scrittori. Ribaltando però la prospettiva. Basta leggere i loro libri, quando parlano di scuola, per capire che l’aspetto centrale, consustanziale, del mestiere di insegnare è lo scambio tra un adulto e persone che adulte non sono ancora. Non esiste apprendimento che funzioni se non nello scambio tra chi ha un’esperienza da trasmettere, di cui fa parte anche l’esperienza di sapere e conoscere, e persone che a quella devono affidarsi. Anzi cercano, hanno bisogno di quella figura.

 

La menzogna cui ci siamo abituati, e che produce danni, in base alla quale le nuove generazioni sarebbero deboli, superficiali, più piatte di uno smartphone è senza fondamento. L’evidenza dice che non appena trovano un insegnante che non sia solo un gestore di Pof e registri elettronici (cosa cui la burostruttura pedagogica sta invece costringendo: c’è da domandarsi quanta della frustrazione degli insegnanti derivi da questo) i giovani esprimono una volontà di relazione, una fame di un rapporto, fosse pure con il prof di Estimo catastale, che è il primo contenuto della scuola. Che come scriveva Elias Canetti è “la viva voce e l’immagine dell’insegnante”. Ed è davanti a questa richiesta, che impone di essere adulti, che spesso escono le fragilità dell’adulto. La generazione che sta oggi in cattedra (le politiche dissennate stanno producendo una classe insegnante piuttosto agée, per un lavoro che richiederebbe freschezza) quella cresciuta tra il Sessantotto e l’età dell’atomizzazione, è una delle più incapaci, o restie, a voler prendere sul serio la propria condizione adulta. Ci sono mille mestieri in cui questa condizione può essere occultata, o tornare persino utile. Quando ci si trovano davanti venti paia di occhi (“Occhiacci di legno, perché mi guardate?” è il primo moto di stupore, o terrore, di Geppetto davanti al pezzo di legno che non è ancora diventato Pinocchio) non è possibile. E ci vuole un fisico bestiale per stare in una classe. E ci vorrebbero un sostegno e un consenso sociale enormi, per sostenere quella fatica.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"