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La vita dei ricercatori europei è un incubo

Samuele Maccolini

Un sondaggio fa luce sulle criticità che caratterizzano l'esperienza professionale dei giovani ricercatori. In Italia la situazione peggiore: solo un assegnista su 10 prosegue la carriera

La scorsa settimana sul sito del giornale scientifico Nature sono stati presentati i risultati di un sondaggio condotto nel 2018 dalla Young Academy of Europe (Yae), un'iniziativa paneuropea che riunisce giovani scienziati e ricercatori da diverse università del vecchio continente. Il questionario fa luce sulle criticità che caratterizzano l'esperienza professionale dei giovani ricercatori. Stress, precariato, burnout: la vita dei dottorandi europei è una staffetta tra incombenze non procrastinabili e borse di studio minime. Secondo i giovani ricercatori, sono quattro i grandi temi da risolvere: la mancanza di tempo, la difficoltà nell'assicurarsi una posizione lavorativa stabile, gli ostacoli che si incontrano nell'ottenere fondi e l'insostenibile mole di lavoro.

  

La ricerca attesta che il 95 per cento dei dottorandi lavora più di 40 ore a settimana; la metà di questi lavora più di 50 ore, una mole di tempo molto maggiore di quella stipulata nei contratti. Queste ore si distribuiscono tra diverse attività. Solo il 30 per cento è dedicato alla ricerca, mentre il 19 per cento è dedicato a supervisione e la stessa percentuale per amministrazione. Il 13 per cento è dedicato alla scrittura, mentre il restante 4 per cento viene speso in altre attività. Ciò significa che due terzi della vita del ricercatore è dedicata a espletare attività che poco hanno a che fare con la ricerca.

  

Il carico eccessivo di lavoro infonde un forte stress nei dottorandi, i quali – spiega il questionario – denunciano una mancanza di chiarezza sulle opportunità di carriera e su cosa venga richiesto per raggiungere una posizione stabile. Infatti solo un intervistato su tre ha dichiarato di aver compreso i requisiti per essere assunto a tempo pieno dall'istituzione per cui lavora.

 

Se la situazione europea è precaria, in Italia l'arretratezza del sistema accademico e la mancanza di investimenti compromettono la carriera dei dottorandi. Nel nostro paese non c'è futuro per i ricercatori. Dei 13.029 assegnisti che attualmente lavorano nelle università italiane – attestano i risultati dell'indagine annuale dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca (ADI) presentata al Senato nello scorso mese di maggio – soltanto il 9,5 per cento avrà la possibilità di diventare professore associato. Tutti gli altri verranno espulsi nei prossimi anni: ciò vuol dire che il 90,5 per cento dei ricercatori non potrà proseguire la carriera.

 

Per lavorare nelle università però bisogna prima essere assunti. Ed è difficile se le posizioni latitano: nell'ultimo anno i posti banditi sono diminuiti del -3,5 per cento; siamo passati dai 9.288 del 2017 agli 8.960 del 2018. E rispetto al 2007 i posti da ricercatore banditi si sono ridotti di un significativo 43,4 per cento.

  

L’offerta di posizioni per accedere al dottorato non è uniforme lungo tutta la penisola. Il sud ha subito il calo maggiore, perdendo il 55,5 per cento dei posti. Segue il centro con una riduzione del 41,2 per cento, e il nord con il 37 per cento. Le percentuali si ribaltano se viene contato il numero dei dottorati banditi in Italia: il nord conta il 48,2 per cento del totale, il centro il 29,6 per cento ed il mezzogiorno solo il 22,2 per cento. Dunque, anche per quanto riguarda la distribuzione dei ricercatori permangono le solite differenze tra Meridione e regioni settentrionali, che si ritrovano già nei valori economici e nel reddito, così come negli indicatori della qualità della vita.

 

Quel che emerge è che in tutta Italia il precariato è diventato la prassi. Secondo i dati a disposizione dell’ADI riguardanti i post-doc, all’interno delle università il personale precario ha superato di molto quello stabile – sono 68.428 i lavoratori tempo determinato e 47.561 quelli a tempo indeterminato.

 

Come mai i ricercatori sono sempre meno e sempre più precari? Potremmo dare la colpa al Miur, appurando il fatto che il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) è restato stabile negli ultimi dieci anni – ha subito un calo, ma poi si è ristabilito a poco più di 7 miliardi. Ma quella presentata dall'Adi è solo una faccia della medaglia. Se si consultano gli ultimi dati disponibili dell'Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (Anvur), si scopre che sebbene il numero di borse di studio sia diminuito dal 2010 al 2016, passando da 12 mila borse a poco più di 9 mila, i posti finanziati sono aumentati, sebbene di poco – da 7,432 a 7,631. Nello stesso tempo sono diminuite vertiginosamente le borse non finanziate, che sono passate da 4,661 a 1,648. Questo tipo di borse è controverso, in quanto non prevedono alcun tipo di finanziamento. Di conseguenza vanno a foraggiare un precariato diffuso. La direzione presa con la riforma Gelmini è stata proprio questa: diminuire il numero di borse di studio ritenute insostenibili e dannose per l'ambiente universitario. A ciò però non è corrisposto un aumento sostanziale delle borse finanziate. "Puntare ad avere più risorse è la direzione che la politica deve percorrere nel medio periodo. Ma allo stesso tempo è necessario non tralasciare la qualità", spiega al Foglio Graziella Bertocchi, presidente dell'Einaudi Institute for Economics and Finance. "Ancora molto c'è da fare, ma almeno ora i dottorandi si trovano ad affrontare un percorso di carriera ordinato. Non c'è più una 'giungla' di contratti, come ai miei tempi".

 

La diminuzione delle figure contrattuali e delle borse non finanziate ha dato una scossa al sistema, ma non ha eliminato il precariato. “Oggi ci troviamo ad affrontare una situazione in cui ci sono sempre più studenti e meno professori, i quali raggiungono una stabilità lavorativa, in media, a 41 anni, dopo più di dieci anni di contratti temporanei”, spiega al Foglio Matteo Piolatto, segretario dell'Adi.

 

La situazione, dunque, resta in bilico. Ora toccherebbe alla politica. Anche se il ministro Bussetti non sembra avere troppo a cuore la questione. Dopo i 100 milioni tagliati alla voce "università" in legge di bilancio 2019, i ricercatori italiani si aspettano il peggio.