Che cosa insegnano davvero i test Pisa sulla nostra scuola
Il dramma non è essere meno bravi di inglesi o coreani, ma il divario tra gli italiani
Milano. Che gli studenti italiani fossero conciati male lo sapevamo. Lo ha detto l’Ocse, lo ha testimoniato l’Invalsi; ora giunge a ribadirlo il conforto dei numeri del Pisa, acronimo del Programme for International Student Assessment che, ogni tre anni, indaga su quali competenze e conoscenze siano state conseguite dai quindicenni sparsi per il mondo. Per la cronaca, emerge che rispetto al precedente triennio il rendimento dei quindicenni italiani (la valutazione è su questa fascia di età) è calato tanto nella lettura quanto nelle scienze, pur essendo già sotto la media Ocse, mentre resta stabile il rendimento in matematica, peraltro in linea con l’estero.
Ora, è evidente che stupirsi, indignarsi e fasciarsi la testa ogni volta che arrivano dati del genere finisce per essere un esercizio retorico noioso oltre che inutile. Anzitutto, è chiaro che le fluttuazioni di triennio in triennio, i lievi peggioramenti o gli impercettibili miglioramenti, di per sé non sono decisivi. I sismografi del Pisa si limitano a segnalare sul breve termine scosse di assestamento, ora in su ora in giù, rispetto a un andazzo che sulla lunga scadenza verrà derubricato come mediocrità, forse aurea forse no. Inoltre i dati del Pisa hanno l’implicito presupposto che sistemi dell’istruzione antipodali non siano di fatto comparabili fra loro.
Per esempio: colpisce che, rispetto alla media Ocse, gli studenti italiani siano in linea per quel che concerne il conseguimento delle competenze minime in tutti i campi ma deficitari quando si confrontano le percentuali di raggiungimento dell’eccellenza. E’ segno inequivoco del fatto che in Italia la scuola appiattisce verso il basso, ossia tarpa le ali ai più bravi per far montare sulla scialuppa anche quelli così così. Infatti il Pisa conferma che in Italia gli studenti dall’alto rendimento (specie se appartengono a un contesto socioeconomico svantaggiato) sono meno ambiziosi quando parlano del proprio futuro. Se però consideriamo la percentuale di studenti italiani eccellenti, per esempio in matematica, ci accorgiamo che percentuali doppie, triple o quadruple arrivano da Corea, Hong Kong, Cina, Singapore: sistemi in cui l’istruzione è parossisticamente selettiva e la scuola svolge un ruolo sociale radicalmente diverso da quello che svolge qui. E infatti il Pisa conferma che, rispetto alla media Ocse, la scuola italiana è più uniforme nel mescolare alunni di diversa estrazione e capacità. Lo stesso dato, considerato da un versante o dall’altro, può dunque risultare un pregio o un difetto.
A ciò si aggiunge che i quindicenni italiani sono estremamente italiani. Rispetto alla media internazionale credono meno nel lavoro di squadra ma sono anche meno competitivi e, soprattutto, a scuola si sentono meno soli dei loro coetanei stranieri; arrivano più spesso in ritardo e talvolta non si presentano affatto. Inoltre solo il 5 per cento di loro è in grado di trattare temi astratti, affrontare concetti controintuitivi e addirittura distinguere i fatti dalle opinioni. Lamentarsi di un risultato del genere significa non tener presente che fra gli adulti nostri connazionali la percentuale sarebbe probabilmente identica e che, come recita l’antico adagio, la mela cade sotto l’albero.
Nel complesso, il rendimento degli italiani risulta inferiore a quello di belgi, francesi, tedeschi, olandesi, inglesi e qui mi fermo altrimenti finisce lo spazio. Ma il succo è che, piuttosto che fare vittimistici raffronti con l’estero, questi dati andrebbero utilizzati per svelare l’indicibile riguardo alla frattura interna alla scuola italiana. Sia dal versante geografico, con le scuole del nord che ottengono risultati nella media a fronte di quelle del sud che fanno da zavorra statistica. Sia dal versante didattico, con i licei che ottengono una percentuale di alunni bravi a scuola all’incirca quintupla rispetto agli istituti tecnici: non significa che i ragazzi dei licei siano migliori, significa che se uno va al liceo ha molta più probabilità di uscirne con competenze specifiche di alto livello rispetto a chi va al tecnico. Senza contare che la capacità di lettura e comprensione è appena sufficiente per il 27 per cento degli alunni degli istituti tecnici, il triplo che nei licei; non solo, è insufficiente per il 50 per cento degli alunni dei professionali. Uno su due: vuol dire che in Italia ci sono scuole superiori che non insegnano a leggere. Piuttosto però che ammettere il divario fra italiani e italiani, preferiamo lamentarci del fatto che il nostro quindicenne medio è meno bravo di belgi, francesi, tedeschi, eccetera eccetera.
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