La rivoluzione dei prof “DAD”
Nell’emergenza del coronavirus il ceto medio riflessivo ha accettato la sfida digitale. E ha salvato la scuola
Come gli aeroplanini di carta in classe, come i libri lanciati in aria all’ultima campanella che annuncia l’estate, nella scuola digitale sbocciata in una primavera di virus vola di tutto, aria nuova. La sorpresa è che volano sensazioni felici. Insegnanti che hanno scoperto un mondo e studenti che si ritrovano tra le mani, o sotto i polpastrelli, un’arma in più. La scuola, quel mondo chiuso che seppure esiste non è comunicabile agli altri, come direbbe Gorgia sofista, dopo un mese di lockdown è tracimata in un’onda di comunicazione che dai social media arriva a tutti: alle famiglie scolarizzate e a quelle in cui un genitore (a volte due) fa il prof, ha svegliato i giornali (i politici meno). Gira persino, tra i mille meme scolastici per stare allegri, l’audio di FeliciDAD, canzoncina rubata ai Carrisi, dove DAD è l’acronimo che abbiamo imparato a conoscere, come Dpcm, come FFP3: Didattica a distanza. La sigla della più grande, caotica, volontaristica e forse per questo riuscita rivoluzione della scuola italiana dai tempi dell’abolizione del calamaio con l’inchiostro. Basta buttare l’occhio su Facebook o chiedere in giro, per chi non rientri nei due milioni di famiglie che hanno a che fare personalmente con la scuola. Ci sono insegnanti madrelingua inglese che alle elementari fanno video con le canzoni; docenti di greco che registrano su YouTube letture in esametri; altri che preparano schede con Jamboard come fosse una lavagna e montano video con Clipchamp come se non ci fosse un domani. La prof. L., che insegna Arte nella città di L., nel governatorato di L., dice che “si vive in modo creativo senza voler scimmiottare la scuola in presenza”, mentre “chi ha tentato di piegare la didattica di prima alle nuove modalità è impazzito”. Ma chi non è impazzito, fa cose belle. La maestra elementare P., della città di B. nel governatorato di L., utilizza su Google Suite soprattutto lezioni registrate, perché i bambini piccoli o non hanno accesso al pc che serve ai genitori, o hanno bisogno di un adulto a fianco, e la condivisione su Classroom di compiti, tutorial, materiali. Però, incredibile, funziona e la quantità di strumenti usati è quadruplicata. Il liceo Scientifico, Musicale e Coreutico di Pesaro sta preparando il musical di fine anno: da remoto. Fare scuola attraverso il computer alle materne è più difficile. Ma la maestra P., nella città di C. nel governatorato di L., registra e monta in video racconti, canti, lavoretti da fare e i video-saluti per non perdere il contatto con i bambini. Certo, ci sono problemi di ogni tipo. All’istituto tecnico Marconi Galilei di Torre Annunziata hanno pubblicato un regolamento con “le norme a cui gli studenti dovranno rigorosamente attenersi nel corso delle attività di didattica a distanza e le corrispondenti sanzioni in cui gli stessi incorreranno in caso di violazione”. Per non parlare dei genitori da tenere a bada. La prof. B. della città di S., governatorato di L., si è vista sbucare una mamma da sotto la scrivania durante un’interrogazione. Ma nelle confessioni e riflessioni di insegnanti di ogni ordine e grado, sorprende la positività. La prof. S., docente di lingue nel liceo della città di G., nel governatorato di L., ha anche l’incarico di “animatore digitale”. Il nome scovato dai burocrati del ministero è degno del Liceo Marilyn Monroe di Nanni Moretti, ma la possibilità di mettere a disposizione dei colleghi “con un lavoro incredibilmente condiviso” capacità, conoscenze e supporto è preziosa. Dice che “la massima creatività è emersa dagli ambiti umanistici. Un po’ perché quelli meno coinvolti finora nella digitalizzazione, un po’ perché c’è una mole di possibilità”.
La canzone “FeliciDAD”, dove DAD è l’acronimo che abbiamo imparato a conoscere, come Dpcm: didattica a distanza. Assieme ai medici e agli infermieri, gli insegnanti hanno dato l’esempio di cosa significa essere “civil servant”
Sarebbe sbagliato dire che la didattica online sia la panacea di tutti i mali della scuola. Insegnare e imparare è un affare prima di tutto vìs-à-vìs. Ma sono decenni che si parla di una scuola che deve adeguarsi ai tempi e mutare strumenti, deve abbandonare il triangolo delle Bermuda cattedra-banco-lavagna. Integrare piattaforme e linguaggi. Anche perché le nuove generazioni non sono native digitali: sono i figli di genitori nativi digitali. Si dice che la scuola è bloccata. Trascurata dalla politica e sottofinanziata, questo va da sé. Ma soprattutto è in difficoltà a darsi una organizzazione e un ruolo. Per decenni, un falso riformismo ha prodotto un eccesso di regolamenti, di Pof, programmi, obiettivi. E intanto i docenti precipitavano nella scala sociale e delle retribuzioni e gli indici di dispersione scolastica e di insoddisfazione salivano. Mentre l’invadenza di una generazione di genitori apprensiva e spesso dotata, come unica risorsa mentale, del gruppo WhatsApp gettava discredito sull’autorevolezza e la competenza. Si dice anche, dati alla mano, che la classe insegnante italiana è mediamente più anziana che in altri paesi. Un’indagine Ocse-Talis pubblicata a giugno 2019 certifica che i docenti italiani hanno in media 49 anni, contro un dato Ocse di 44. Il 48 per cento è sopra i 50 anni contro una media Ocse del 34. In più l’eccesso di femminilizzazione (il 78 per cento, e il 69 dei dirigenti scolastici), dato solitamente letto, anche se non è vero, come una tendenza all’impegno part time. Infine, solo il 52 per cento degli insegnanti usava regolarmente (un anno fa) tecnologie digitali a scuola. Lo specchio fedele di un paese fermo, ma esteso a una base sociale di milioni di persone e famiglie.
Su YouTube letture in esametri; schede con Jamboard come fosse una lavagna e video con Clipchamp come se non ci fosse un domani. La maggior parte degli istituti lavora sulla piattaforma Google Suite, ma un milione e 600 mila studenti restano fuori
Poi è arrivato il grande lockdown che ha bloccato prima di tutto proprio le scuole (categoria non essenziale). E nel caos ministeriale, le prime indicazioni assai generiche hanno contribuito all’agitazione. Così è arrivata la grande reazione dei prof. Le lettere dei presidi, come quello del liceo Volta di Milano pubblicata dal Foglio. E una applicazione su base volontaria. Perché, fin dalle prime battute, il governo ha saputo solo dire che la scuola “attua la didattica a distanza”. Senza sapere come, né specificare se fosse obbligatorio o no. La quasi totalità degli insegnanti l’ha preso come un obbligo morale e professionale. E’ successo, in sintesi, questo. Che un corpo sociale da sempre considerato parte del cosiddetto ceto medio riflessivo – che al pari di altre professioni come i medici e gli infermieri ha nel Dna la dedizione al proprio lavoro – questo ceto colto e impegnato ma un po’ attempato, refrattario all’aggiornamento e alla trasformazione, questo corpaccione che chiamiamo “la scuola”, si è trasformato, e ha dato un esempio. Non che vada tutto bene: la rivista online OrizzonteScuola ha attivato un servizio di consulenza psicologica e si paventano grandi crisi: “Gentile dottore, venerdì scorso per la prima volta nella mia vita (avrò 46 anni il prossimo ottobre), e nella mia carriera di docente – di ruolo dal 2007 – sono in malattia per un disturbo che non è fisico ma psichico… Questa Dad e la situazione corrente certo non facilitano”. Fallimenti abissali: “Ho consigliato video su Youtube, ho creato un blog didattico, ho inventato esercizi online, giochi interattivi, ho mandato pdf da stampare, schemi, schede, esercizi e mappe. Ho cercato di far utilizzare l’inglese anche al di fuori del contesto scolastico, dando per compito una ricetta, un gioco di carte, una caccia al tesoro da fare in famiglia. Purtroppo ho ‘fallito’ ogni volta: genitori senza stampanti che non potevano stampare i pdf, famiglie senza connessione e/o senza computer”. Ma in generale i prof hanno reagito in un modo impensabile, si sono buttati con convinzione nel più grande esperimento di trasformazione e di aggiornamento professionale mai visto in Italia. “Sono in contatto con molti colleghi che hanno il mio stesso compito, faccio in continuazione webinar”, ci dice l’animatrice digitale, “posso affermare che quelli che si sono lanciati con più impegno sono gli insegnanti più anziani”. Certo non tutto funziona, la rivoluzione non è mai un pranzo di gala. Ma è anche un esempio che, passata ’a nuttata, non dovrà andare sprecato quando si parla di pubblico impiego.
Il problema è che questa rivoluzione è partita dai “campi e dalle officine”, non da Viale Trastevere. Nel primo Dpcm del 4 marzo si diceva soltanto che “i dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza”, mentre il ministero dell’Istruzione rendeva disponibili “strumenti informatici” e “una task force per sostenere le scuole e rispondere alle loro necessità”. Molto generico. La maggior parte degli istituti è dotata di piattaforme certificate digitali, lo standard più diffuso è Google Suite. Ma non vale per tutti e i dislivelli di utilizzo fino a un mese fa erano notevoli. Intervenendo in Senato il 26 marzo la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha affermato che “secondo un sondaggio preliminare fatto a livello nazionale, a cui ha risposto il 93 per cento delle circa ottomila scuole italiane (dove si sarà perso il restante 7 per cento?, ndr) degli 8,3 milioni di iscritti nelle scuole italiane più di 6,7 milioni erano stati raggiunti dalle attività di didattica a distanza”. Dove si è perso il restante milione e 600 mila? E’ compito della ministra verificare al più presto. Inoltre, i numeri di Azzolina vanno a cozzare contro quelli di Istat, secondo cui il 14,3 per cento delle famiglie con almeno un minore in età scolare non possiede un pc o un tablet. E solo nel 22,2 per cento delle famiglie ogni componente ha a disposizione un pc o tablet personale. Dato che peggiora soprattutto al Sud e sui giovani, cui vanno aggiunte le carenze di rete in molte zone del paese. Siccome non è tutta colpa della pubblica Istruzione, nel decreto “cura Italia” si è provato a rimediare con uno stanziamento di circa 85 milioni, destinati, per dieci milioni, “all’acquisto di strumenti digitali o per favorire l’utilizzo di piattaforme di e-learning”; per 70 milioni a mettere a disposizione degli studenti meno abbienti, in comodato d’uso, dispositivi digitali individuali e connessione internet; e 5 milioni alla formazione del personale. Non troppo. Positivo il criterio attraverso cui si aiuteranno gli studenti privi di attrezzatura. L’indicatore utilizzato per rilevare l’origine sociale degli studenti è l’indice Escs (Index of economic, social and cultural status), utilizzato per i test Pisa, che riassume tre variabili: il più alto livello di status occupazionale dei genitori, il più alto livello di istruzione dei genitori e l’indice di beni posseduti a casa. Un sistema che tiene conto al 70 per cento del coefficiente di povertà territoriale e al 30 per cento della popolazione studentesca. Il ministero fa sapere che i bonifici sono già arrivati alle scuole.
Siccome non è tutta colpa di Azzolina, bisogna dire che c’è una rugginosità della scuola-istituzione contro cui la scuola reale combatte a mani nude. In questi quaranta giorni, anziché perdere tempo in annunci inutili, si sarebbe dovuto concentrarsi per mettere tutti in condizione di accedere alla mitica Dad. Ma la scuola è anche un grande teatro sociale, e un paese di famiglie apprensive e di giornalisti hanno passato un mese a chiedere ad Azzolina, che di suo ci ha messo parecchio per aumentare la confusione, soltanto “quando si riapre?” (la risposta che tutti coloro che lavorano nella scuola sapevano già è: mai) se ci saranno i promossi e bocciati (risposta: era già chiaro che non si boccia nessuno) e come sarà la maturità (idea: poteva essere invece l’occasione per abolirla). Ma nessuno a chiedere conto di quante siano le scuole messe in condizione di fare didattica online. Poi succedono cose assurde, che danno l’idea della eroicità dei prof. Mentre il famoso ceto medio riflessivo cambiava pelle e il ministero ansimava, i sindacati dimostravano di non essere assolutamente all’altezza della rivoluzione in corso. Si preoccupano per prima cosa della contrattazione integrativa: “L’articolo 22 lettera c comma 4 del CCNL scuola del 2018 ricorda che ‘sono oggetto di contrattazione integrativa i criteri generali per l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche di lavoro in orario diverso da quello di servizio, al fine di una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare (diritto alla disconnessione)’. Quindi, questa materia è stata rimessa alla contrattazione integrativa”. Invece, volontari e creativi, gli insegnanti vanno avanti, hanno imparato a condividere il lavoro, a gestire lezioni “in presenza” e registrate e Classroom in cui scorrono materiali e verifiche. A utilizzare il canale YouTube che la maggior parte degli istituti ha a disposizione in sistemi chiusi e protetti. Poi ci sono quelli che volenterosamente si attrezzano in assenza dell’istituzione, hanno costituito pagine Facebook, persino chat su WhatsApp, facendo fronte con la “didattica asincrona” alla povertà di mezzi. Danno il buon mattino agli studenti, scherzano sui pigiami e sui capelli arruffati come in ogni normale mattina, lottano contro telefonini-bigini che lampeggiano agli angoli dell’inquadratura, contro mamme che suggeriscono e fratellini che sbattono la porta, contro una nuova tipologia di scuse (“prof non ho campo”). Quando finalmente riapriranno le scuole (per ultime) oltre agli applausi dai balconi, sarà importante ricordare che – assieme ai medici e agli infermieri – gli insegnanti della scuola italiana hanno dato l’esempio di cosa significa essere dei civil servant.
Il Foglio sportivo - in corpore sano