Investire subito sulla scuola perché l'Italia riparta. Dirlo non è retorica
Ha vinto l’idea che al centro c’è lo stato, rendendolo meno efficace. Si è puntato più sulla protezione che sulla promozione
In “Assassinio sul Nilo” Agatha Christie fa dire a Marie Van Schuyler, un’americana con il debole per i gioielli altrui, che “le regole sono fatte per essere infrante, io sono una specialista in questo campo”.
Non me ne voglia Anna Maria Poggi, autrice di “Per un diverso Stato sociale. La parabola del diritto all’istruzione nel nostro Paese” (il Mulino, 2019), ché certamente questa non era la sua intenzione, ma la lettura del suo saggio lascia questa impressione di fondo: le Costituzioni sembrano fatte per non essere applicate, e noi italiani siamo specialisti in questo campo.
L’articolo non ancora applicato della nostra Carta è il 34, con il quale ci siamo impegnati a costruire una scuola “aperta a tutti” in cui “l’istruzione inferiore”, è “obbligatoria e gratuita”, un sistema formativo che permetta ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, […] di raggiungere i gradi più alti degli studi”. La professoressa Poggi, ordinaria di Diritto costituzionale a Torino ritiene, con un garbo linguistico rispetto al quale io sono stato più tranchant, che la “pretesa universalistica” di questo articolo costituzionale, la “garanzia dell’uguaglianza della situazione di partenza”, “la meritocrazia” e “il diritto allo studio” “non hanno a tutt’oggi sortito gli effetti sperati e auspicabili”.
La sua è la constatazione di un dato di fatto che illustra con i numeri dei tassi di abbandono precoce del percorso scolastico, con le percentuali record in Europa di Neet (giovani che né studiano né lavorano), con il divario nelle abilità numeriche e alfabetiche tra regioni del nord e regioni del sud, con i risultati schizofrenici all’interno di un unico sistema di istruzione nazionale nei test PISA, con il preoccupante analfabetismo di ritorno che registra l’impressionante incapacità di due terzi degli italiani di capire effettivamente che cosa legge.
“A qui la faute?”, di chi la colpa? Direbbe Victor Hugo. Qui la Poggi è dura: abbiamo abbandonato i princìpi e i valori che hanno ispirato i costituenti con “politiche scolastiche sempre meno meritocratiche” e con “una certa interpretazione dello stato sociale che ha privilegiato gli interventi di assistenza indebolendo progressivamente quelli di promozione”. Che cosa vuol dire? Uno stato “assistenziale” ha il dovere di “garantire l’istruzione nelle situazioni di bisogno e le persone hanno il diritto di riceverla”. Uno stato sociale che si concepisce come “promotore” di diritti “non ha solo il dovere di garantire l’istruzione ma anche il diritto di pretenderla; le persone non hanno solo il diritto di istruirsi ma hanno anche il dovere di farlo”.
La Poggi si addentra quindi in un’analisi storica del passaggio dallo stato liberale ottocentesco alla conquista novecentesca del concetto di stato sociale facendola ruotare intorno alla concezione della scuola, passando in rassegna le varie riforme, ma soprattutto portando a galla l’alternativa di fondo, che ancora oggi si gioca nell’interpretazione della Carta del 1948. Lì si afferma il diritto all’istruzione o il diritto di accesso all’istruzione? L’istruzione è una “funzione dello stato” o vi sono anche altri soggetti che hanno il diritto e il dovere di istruire i giovani, ad esempio i genitori. E nel farlo, lo fanno in quanto genitori o in quanto “funzionari dello stato”? E poi ancora: lo stato ha l’obbligo di fornire l’insegnamento o ha invece l’obbligo di rendere le persone istruite? Insomma: al centro c’è lo stato oppure ci sono gli interessi generali di cui lo stato si fa servitore?
Purtroppo in Italia ha vinto l’idea che al centro c’è lo stato e questo ha reso paradossalmente lo stato meno efficace, l’ha fatto concentrare su politiche di protezione invece che su politiche di promozione. Il risultato è l’assistenzialismo di cui la scuola, pur con tutti i meriti acquisiti nella lotta all’analfabetismo, si è fatta sostanzialmente carico. Così lo stato sociale, una grande conquista, si è trasformato in uno stato paternalistico contrassegnato dalla “antropologia dell’uomo assistito”, la cui caratteristica principale è una diffidenza per la libertà delle persone e una sottovalutazione della sua potenzialità anche “per costruire le stesse azioni pubbliche”.
Il caso esemplare di che cosa significhi una concezione assistenziale del diritto all’istruzione lo si ha passando dall’altro lato della cattedra. “Formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti in Italia” di Francesco Magni (Edizioni Studium, 2019) completa il saggio della Poggi sposandone, senza accordo preventivo, la tesi di fondo. Magni è avvocato ricercatore in pedagogia dell’Università di Bergamo. Lo stato – dice – forma e recluta i suoi insegnanti per “formare i nuovi sudditi/cittadini”, ma non si può dire, anche qui dati storici alla mano, che lo fa avendo come prima preoccupazione la loro qualità.
Il libro di Magni può essere letto come un lungo elenco di ottime intenzioni di riforme scolastiche e disastrose applicazioni, a partire dall’unità d’Italia. Magni, come la Poggi, ha il rigore del ricercatore, ma la malizia semplificativa del giornalista legge tra le righe un sostanziale giudizio di inconcludenza strutturale e quasi programmata quando si tratta di scuola. Già Cavour diceva che “quando vuoi occupare la Camera interminabilmente e senza conclusione, basta gettare in preda agli onorevoli deputati un progetto di legge d’istruzione”. Progetto di legge che vedrà la luce dopo infinite discussioni, salvo essere immediatamente disapplicato dagli stessi legislatori. Le norme per il reclutamento degli insegnanti vengono subito e regolarmente eccepite sin dai tempi di Napoleone. Risale al 1807 una lettera all’imperatore francese in cui il viceré Eugenio giustificava un decreto con cui si consentivano avvicendamenti e assunzioni del personale docente definendolo utile “per un gran numero di studiosi e letterati che si lamentano di rimanere senza meta e senza risorse”, inoltre, sottolineava il viceré, la sanatoria avrebbe esercitato “una utile influenza su circa 360 famiglie italiane”. La concezione della scuola come “ammortizzatore sociale” non è invenzione recente.
Il percorso che per arrivare in cattedra prevede una laurea, un esame di stato, un’abilitazione e un concorso è teoricamente e sostanzialmente identico da centosessant’anni. E da allora le circostanze e le emergenze l’hanno altrettanto sistematicamente stravolto.
Già la legge Casati (1959), dopo aver stabilito il concorso come procedura normale per l’immissione in ruolo dei docenti “in ragione del loro merito”, prevedeva poi la loro tripartizione in “titolari, reggenti e incaricati”, per non parlare della possibilità di “nomina diretta del sovrano” che poteva mettere in cattedra “uomini che per opere scritte o per buone prove nell’insegnamento, saran venuti in concetto di grande perizia nelle materie che loro sarebbero affidate”.
Inizia in quegli anni e si consolida sino ai giorni nostri una concezione burocratica della scuola che i recenti tentativi di autonomia non hanno ancora scalfito. L’accentramento statalista riceve un impulso decisivo nel periodo del fascismo. Con la Costituzione la modalità di selezione del corpo docente non vide novità: nel luglio 1947 furono banditi i primi concorsi ordinari dell’Italia repubblicana, nella primavera del 1948 iniziano le deroghe e poi negli anni si va avanti alla giornata “trasformando così studenti e famiglie da protagonisti del sistema a figure secondarie”, le riforme hanno di fatto come destinatari solo i professori in cerca di stabilizzazione, ingenerando l’aspettativa che, se sei laureato, prima o poi lo stato il posto te lo dà. Sino al paradosso che, in un paese in cui la legge dice che si diventa docenti di ruolo per concorso, alla fine degli anni Settanta, di sanatoria in sanatoria, il 90 per cento dei docenti era di ruolo senza averne superato uno.
A tutto ciò si aggiunga che l’Italia ha i professori più anziani d’Europa, il 59 per cento ha più di cinquant’anni mentre è difficile trovarne che ne abbiano meno di trenta. Nuova linfa nelle arterie sclerotizzate del sistema va immessa.
Forse, se è non è retorica dire che la scuola è il primo investimento di un paese che voglia crescere e far crescere umanamente i propri cittadini, è giunto il momento di cambiare il sistema di reclutamento. Magni si incarica di avanzare un’ipotesi che supera l’ottocentesca forma del concorso (anche perché il concorso diventa quasi sempre un ricorso, idea sulla quale concorda Pietro Ichino) e basata sul concetto di autonomia: l’insegnante non sia più un impiegato statale ma quanto di più simile ai membri di una professione liberale. Ma soprattutto deve affermarsi il principio che lo strumento principe per l’immissione in servizio degli insegnanti è l’apprendistato: imparare insegnando e insegnare imparando sotto la guida di docenti più esperti e la supervisione di tutor che facciano da collegamento dell’università.
Cambiare tutto subito? No, si può sperimentare. Se funziona si procede, se non funziona un sistema (che anch’esso non funziona) già ce l’abbiamo.
Ma la sfida educativa o passa dalla qualità degli insegnanti o sarà perennemente persa. La posta in gioco è alta: chi si consegna a un maestro, diceva Platone nel Protagora, “gli affida l’anima”.
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