Il lavoro silenzioso delle Università per sopravvivere al Covid-19
I rettori dei principali atenei italiani studiano soluzioni per salvare conti, indotto e studenti, puntando su un servizio di formazione blended. Ma chiedono nuove risorse e una certa reattività
Torino. Le università italiane sanno badare a loro stesse, nonostante la recessione, la pandemia e il quasi totale silenzio cronachistico sul loro conto durante l’emergenza. Un silenzio rotto fragorosamente dalle parole del capo dicastero Gaetano Manfredi che, in un’intervista a La Stampa il 27 aprile, ha esternato la paura delle paure degli atenei. “L'università rischia il crollo degli studenti. Temiamo che il 20% abbandoni i corsi”, spiegava indicando come soluzione l’aumento di borse di studio e la necessità di ripensare i modelli formativi, puntando su soluzione miste, in aula e a distanza. Cose che in realtà le accademie hanno messo in campo da subito. Il discorso di Manfredi è chiaramente più articolato, ma oltre a queste indicazioni il governo non sembra aver costruito un piano specifico per la vita universitaria nel post Covid-19. Non ci sono per ora misure nazionali per far fronte all’eventuale “fuga” dai banchi. Una probabilità, eventuale tanto quanto lo era quella di essere attaccati da una pandemia e che avrebbe senso poter indirizzare prima e non dopo il suo verificarsi. La reattività accademica di questi mesi, però, fa ben sperare.
Durante il lockdown, che per questi centri come per le scuole è ancora pienamente attivo, le università italiane hanno infatti continuato a coltivare senza interruzioni il vivaio di servizi e vite umane di cui sono responsabili e che va preservato. Lo dimostrano i dati accademici sui corsi erogati, sulle lauree discusse online, sull’attività di ricerca - rallentata ma non ferma. E non si tratta solo della “business continuity” interna agli atenei. Parliamo anche della preservazione di quel patrimonio di di dipendenti e studenti, molti fuori sede, che con la loro presenza in città come Milano, Roma, Torino o Ferrara creano da anni un indotto che è sì culturale ma è anche economico.
E’ allora il caso di chiedersi come questi centri di formazione, fondamentali per garantire insieme un futuro al mercato del lavoro e un lavoro ai futuri studenti, abbiano retto fino a oggi e cosa le aspetti a settembre. Pochi giorni fa, l’osservatorio Talent Ventures ha pubblicato una piccola indagine sull’impatto della serrata sociale sugli atenei italiani, chiedendosi che cosa succede all’economia universitaria quando oltre a ragioni di tipo sanitario bisogna fare i conti con le conseguenze di una recessione. La stima, predittiva e basata sulla correlazione tra crollo del pil (-9,1% secondo stime FMI) e scarsità di risorse da investire in istruzione post-liceale, parla di una possibile contrazione delle immatricolazioni per il prossimo anno accademico pari a 35 mila iscritti in meno. Questo immaginando che le migliaia di ragazze e ragazzi fuori sede, e che in genere ogni anno decidono di proseguire gli studi dopo la maturità, stavolta scelgano di non muoversi oppure che le loro famiglie - causa crisi economica- non possano permettersi di finanziare il corso di laurea, l’affitto, le spese a Milano, Roma, Padova.
Il tutto comporterebbe una perdita di 46 milioni di euro solo in tasse universitarie. Un bel buco non solo per i bilanci degli atenei pubblici e privati, ma anche per la competitività dell’Italia, che può essere garantita solo da una formazione avanzata. Si tratta di un esercizio matematico, non della realtà, utile però a chiedersi chi pagherebbe il conto delle misure di convivenza con il Covid-19 in caso di crollo delle immatricolazioni. Partendo da due poli d’eccellenza. Nella simulazione, tra gli atenei con il più alto numero di studenti fuori sede figurano infatti quello di Ferrara e l'Università Bocconi (Milano).
“Il problema ce lo siamo posti, certo, anche perché noi abbiamo moltissimi studenti fuori sede, ben 17 mila su oltre 23 mila iscritti e non solo 4 mila come riportato nell’indagine, tanto che abbiamo sottoposto un sondaggio proprio per capire le esigenze di ragazzi e ragazze”, spiega al Foglio il rettore dell’Università di Ferrara, Giorgio Zauli. “Hanno risposto circa in 10 mila e di questi il 55% ha confermato di voler continuare con la didattica digitale, un servizio su cui abbiamo puntato moltissimo già da anni e che ci ha permesso di essere competitivi oggi. Ovviamente la formula su cui puntiamo non è quella dell’università telematica, bensì di formazione mista: in aula e, laddove non sia possibile per ragioni di sicurezza o di altra natura, anche via e-learning”.
Zauli fornisce un primo indizio importante: solo le realtà che già hanno investito in piattaforme e sistemi di digitalizzazione hanno qualche difficoltà in meno nel garantire i servizi essenziali. Oltre alle piattaforme per la formazione a distanza, però, esistono costi di adeguamento alle misure anti-Covid19. Ad esempio, aule che prima potevano contenere 160 studenti, domani ne potranno ospitare al massimo quaranta per garantire la distanza fisica. Significa allestire spazi nuovi o rimodulare quelli esistenti, pagando chi possa pulire i filtri dei condizionatori non più una volta al mese ma una volta a settimana. Significa investire in edilizia universitaria.
“Bisogna porsi un problema pratico, pragmatico”, continua Zauli. “Avevamo messo a bilancio per il 2020 circa 20 milioni di euro di tasse universitarie, ma non sappiamo quanto incasseremo dell’ultima tranche che noi abbiamo posticipato al 20 giugno. Tuttavia anche laddove ci fossero ritardi, questo non avrebbe però nessuna ripercussione sulle tasse future: non ci saranno aumenti, siamo un’Università pubblica e il servizio che eroghiamo deve continuare ad essere accessibile”. La Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) ha provato a stimare il fabbisogno degli atenei nazionali per far fronte alle misure di adeguamento e garantire continuità formativa. Il rischio, infatti, è che l’Italia sconti una concorrenza agguerrita da parte di realtà internazionali già ben attrezzate per offrire sia la formazione a distanza sia borse di studio e programmi qualitativamente appetibili per i prossimi immatricolati.
“Prevedere scenari è complicato, specie se riguardano il possibile impoverimento sociale ed economico del paese; di certo occorre prevedere i costi di contenimento e di competitività non solo per l’emergenza ma almeno per i prossimi tre anni”, spiega al Foglio Ferruccio Resta, presidente CRUI e attuale Rettore del Politecnico di Milano. “La contrazione sulle iscrizioni in genere non è immediata ma segue di due o tre anni la recessione. In ogni caso noi abbiamo stimato per le università affiliate alla CRUI un fabbisogno di circa 80 milioni di euro per sostenere le spese di sanificazione, messa in sicurezza, didattica a distanza e tutte le misure di adeguamento, a questi però si aggiungono circa 300 milioni di euro che potrebbero coprire la contribuzione degli studenti con un reddito Isee basso, e quindi permettere di abbassare loro le tasse universitarie senza però intaccare i bilanci accademici”. Per dare un’idea: nel decreto Cura Italia sono stati stanziati 50 milioni di euro in aiuti diretti alle università.
La necessità di risorse per rimpolpare il diritto allo studio e sostenere i costi formativi e di vita di ragazzi e ragazze non è un problema che riguarda solo le accademie statali. L’Università IULM di Milano ha ad esempio 6.694 iscritti (anno 2019/2020) e di questi ben 5733 sono fuori sede tra chi vive fuori Milano e chi fuori dalla Lombardia. Per garantire continuità formativa l’ente ha predisposto lezioni da remoto già a partire dal 9 marzo mentre, per venire incontro alle esigenze economiche della sua platea ha posticipato come altre accademie il pagamento delle tasse (da marzo a fine maggio). Ha poi annunciato il perfezionamento di un accordo bancario per favorire prestiti d’onore e soprattutto la creazione in seno all’ateneo di un fondo d’emergenza da 500 mila euro per garantire il diritto allo studio a studenti coinvolti direttamente dalla pandemia.
Sono strade percorribili che altri istituti stanno vagliando, ma rappresentano anche il sintomo di una preparazione alla possibile onda d’urto del prossimo autunno/inverno. Il periodo ipotetico è d’obbligo anche perché c’è chi invece non prevede un crollo delle immatricolazioni ma anzi una possibile crescita della domanda formativa. “Di fronte a qualsiasi tipo di crisi bisogna avere le antenne dritte, ma attenzione: a livello internazionale l'investimento in istruzione universitaria è anticiclico”, spiega al Foglio Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi di Milano. “Se prendiamo la recessione causata dalla crisi del 2008, vediamo che l’impatto non sia poi così diretto, nel senso che l’investimento in education è pluriennale e anche a fronte di una contrazione temporanea si deve poi valutare l’impatto sulle iscrizioni nel lungo periodo e certamente tenendo conto del livello di profondità della crisi. Anzi, proprio quando le condizioni del mercato del lavoro non sono ottimali, le persone scelgono di studiare, di formarsi”. Ciò che preoccupa Verona è in realtà la condizione della mobilità internazionale. “La Bocconi è un’accademia che attira studenti dall’estero e potrebbe essere difficile per loro tornare fisicamente a lezione”, continua. “Ma questo ci stimola a fornire un servizio di formazione blended, quindi misto di didattica online e offline, ancora più efficace e qualitativamente elevato”.
Che però ci sia bisogno di una rete di protezione per garantire l’accessibilità e la continuità formativa lo riconosce anche il rettore di una delle università private più importanti d’Europa. “Aumenteremo le borse di studio. Lo scorso anno abbiamo raccolto tramite il nostro canale di fundraising circa 30 milioni di euro destinati a questi strumenti per chi voglia studiare in Bocconi e l’intenzione è di ampliare queste borse”.
La speranza, o la previsione, è che migliaia di studenti italiani ed europei che solo pochi mesi fa avrebbero tentato la strada delle accademie statunitensi o inglesi - in cima alle classifiche dei migliori atenei al mondo - anche a causa della pandemia optino per un’università italiana. E forse il fatto che stavolta il governo non sia entrato a gamba tesa nell’organizzazione delle misure accademiche e dei loro piani per il dopo-coronavirus è ciò che potrebbe dare slancio agli atenei. Che le idee le hanno molto chiare: non vogliono tramutarsi in università telematiche, vedono il digitale come un’opportunità per diventare centri di eccellenza e studiano modi per far tornare fisicamente gli studenti nelle città che li ospitano. Per farlo però hanno bisogno di una rete, di risorse e reattività. La stessa che sta permettendo loro di non lasciare indietro chi dovrà lavorare per ripagare tutti i nostri salati debiti.
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