La scuola senza scuola
Il tablet, le cuffie, la connessione. Tre mesi di didattica a distanza e di libri raccontati dalla mia poltrona
Bambine e bambini ci guardano. Guardano con affetto e apprensione genitori e adulti che a volte non comprendono. Scrutano e osservano tutto ciò che facciamo perché sanno che tanto della loro vita dipende da noi. Talvolta si fermano stupiti e attoniti di fronte ad alcune immagini che arrivano dal mondo. Per questo credo che noi adulti abbiamo il dovere di accompagnare i loro sguardi rivolti alle tragedie e alle meraviglie che abitano la terra, non lasciandoli soli. Non possiamo nascondere ai loro occhi storie e lacerazioni che caratterizzano il presente, ma assumerci piuttosto le nostre responsabilità prendendoci cura delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri che nascono dai loro sguardi”.
Per capire cosa è stata la scuola in questi tre mesi dobbiamo anzitutto delineare profili, case, città di un certo paesaggio
Così scriveva Franco Lorenzoni nel libro I bambini ci guardano (Sellerio), nel 2019: l’anno scorso, ma in realtà mille anni fa, quando pensavamo tutti che il dibattito sulla scuola fosse una cosa interna alla scuola, nel senso preciso degli spazi, dei tempi, dei luoghi nei quali davamo per scontato che si dovesse svolgere quell’esercizio dell’alterità che è l’andare in classe. A rileggerle oggi, dopo tre mesi di quell’uragano arrivato nelle nostre case e chiamato con tre lettere apocalittiche Dad, didattica a distanza, le parole del maestro Lorenzoni svelano tutto un altro significato. Per capire cosa è stata la scuola in questi tre mesi – se mai riusciremo davvero a capirlo, prima di scagliarci contro qualcosa o qualcuno, che siano tutte le inadempienze, tutte le inadeguatezze: quella del ministero, quella dei genitori, quella di dirigenti e insegnanti – dobbiamo anzitutto delineare profili, case, città di un certo paesaggio. Paesaggio che ha contorni che si chiamano così: connessioni traballanti, bambini fermi davanti agli schermi, bambini che si muovono dentro finestrelle, bambini che dagli angoli di casa formano una classe, bambini con alle spalle mucchi di giocattoli o mucchi di panni da stirare, bambini su scrivanie improvvisate, bambini senza scrivanie, bambini con stanze lussuose o decadenti, bambini con dietro dispense, tavoli, mensole, bambini che fanno i compiti, bambini e amici immaginari, bambini che hanno appena finito di piangere, bambini che ridono sguaiatamente, bambini che funzionano come funzionano i bambini, cioè: ognuno a modo suo. E poi genitori che passano distratti dietro la videocamera, genitori che si imbucano per origliare la lezione, genitori che prendono il microfono e approfittano per dirne quattro alla maestra, linee che cadono, maestre che richiamano, bambini che alzano le mani nelle piattaforme più evolute (quelle con la manina verde che si illumina nel prendere parola), linee che cadono di nuovo, chat che si animano, urlare i compiti per la prossima volta, cominciare ogni incontro dicendosi che è strano stare lì, però tutto sommato ce la possiamo fare. Come le so io tutte queste cose? Io che non sono né una genitrice né un’insegnante né una bambina. Avendo scritto svariati libri per ragazzi, la mia primavera 2020, come tutte le primavere da qualche anno a questa parte, doveva consistere nello spostarmi da una parte all’altra d’Italia per visitare un certo numero di scuole che avevano adottato i miei romanzi allo scopo di ripetere, tra marzo e maggio, quel rituale che va sotto la nomenclatura “incontro con l’autore”.
C’erano famiglie per cui era tutto impossibile, far collegare tre figli da pochi metri quadri, e altre che se la cavavano non troppo male
Questo era il programma dell’autrice, uguale a sempre. L’autrice, però, a un certo punto del 2020, è scomparsa, sepolta dentro casa per via delle norme anticovid. E’ scomparsa la sua agenda, qualsiasi cosa ci avesse appuntato sopra all’improvviso non era più importante. Fatto più inquietante di tutti, è scomparsa la scuola: se anche l’autrice avesse voluto andarci, la scuola non c’era più. Si era smontata. Nemmeno si sapeva se si poteva rimontare o meno, ricostruirla come un puzzle di finestrelle da remoto, oppure se l’anno era perso per sempre. Finché, nell’agenda vuota come una sterminata e assolata prateria, sono tornati i primi appuntamenti: la scuola si era riorganizzata, non è che per caso ero disponibile a scaricare la tale o talaltra piattaforma per fare lo stesso incontro, sì, però online? Intanto, in qualche classe mi ero già imbucata, non grazie ai miei libri ma a quelli degli altri, i classici: con Piccoli maestri, l’associazione di scrittrici e scrittori che raccontano agli studenti i libri più amati, avevamo ideato l’iniziativa #sfangarla, ovvero come sfangarla fino a fine anno. Avevo già capito che sarebbe stato un disastro, anche quando non lo sarebbe stato, perché mi sarebbero toccati i sospiri degli adulti sui mesi rubati ai ragazzi e i sospiri dei ragazzi troppo annoiati per spiegare agli adulti che i loro sedici anni non dovevano assomigliare a quelli dei genitori, altrimenti se non sono unici che sedici anni sono? Eh, ma la maturità senza l’ultimo giorno di scuola vera, borbotta il trombone che è in noi e borbottano all’unisono i tromboni su Facebook, mentre i maturandi si stanno già costruendo la propria, di epica, com’è giusto e logico e sempre lo sarà per un miliardo di anni. Quanto ai bambini, quelli che ci guardano secondo Vittorio De Sica prima e Franco Lorenzoni dopo, per loro sarebbe stato ancora diverso.
A un certo punto del 2020, l’autrice è scomparsa, sepolta dentro casa per via delle norme anticovid. E così la scuola
Allora mi sono ritrovata in mattine sempre uguali e tutte diverse. Sveglia, caffè, colazione e anziché il treno per Vibo Pizzo o Cadelbosco Di Sopra, tutto un altro scenario, a pochi metri dal letto: la mia poltrona viola, la libreria d’ordinanza alle spalle e la connessione con la scuola del giorno, da Udine a Mazara del Vallo. L’Italia si presentava unita da una sola emergenza, da un solo grido, da una sola richiesta: per favore, bambini, silenziate i microfoni quando non parlate oppure non si capisce niente! Nel cuore di Roma Est, una scrittrice si agitava davanti a uno schermo parlando sola per lunghissimi minuti, stringendosi le cuffiette e fermandosi ogni tanto per chiedere: ehi voi ci siete, ci siete tutti? Senza mai dimenticare di ringraziare le insegnanti e gli insegnanti, perché io dentro una famiglia di insegnanti ci sono nata, nonna maestra, nonno direttore didattico (oggi si direbbe dirigente, e secondo me non gli piacerebbe), genitori insegnanti, zie insegnanti, zii insegnanti. La scuola per me è sacra. Anche se si chiama Dad e si fa senza appiccicare le cingomme sotto i banchi, anche se quando si alza la mano per andare in bagno poi si va nel bagno di casa propria, anche se la merenda non si può più fare con la pizzetta unta comprata dalla bidella. Così, ogni mattina ero lì, con il mio thermos e il mio caffè, a recitare sul serio quello che c’era da recitare sul serio.
Mentre ci preoccupiamo per loro, i bambini risolvono i nostri problemi con quegli oggetti infernali che ci hanno salvato la vita
Più o meno andava così: per un poco parlavamo del libro, inscenando la dialettica solita, le loro domande, le mie risposte, quando mi era venuta l’ispirazione, quanto tempo avevo impiegato a scrivere, perché avevo scelto di ambientare il mio libro proprio lì, se per caso c’era qualcosa di autobiografico e in quale personaggio mi rispecchiavo di più. Poi, tutta la vita attorno. La mamma che approfitta per dire la sua, la bambina che si addormenta con la testa sul gomito, la maestra che deve accollarsi il figlio piccolo in braccio, e i dettagli, milioni di dettagli: il coprisedia, il copriasse, i braccioli, l’acquerello attaccato storto, i libri da sistemare, il letto da rifare, il rumore di chi nell’altra stanza sta litigando, l’assenza del bambino che non riesce a connettersi, l’attività risolutoria di quell’altro che interviene spavaldo a sistemare i problemi di audio: maestra, maestra, stia tranquilla, ci penso io. I bambini, mentre ci preoccupiamo per loro, risolvono i nostri problemi con quegli oggetti infernali che un poco ci hanno salvato la vita: il computer, il tablet, le cuffie e le cuffiette, il modem, il router, la fibra ottica, il pacchetto dati. Poi, quando avevamo finito di aggiustare quello che non funzionava, cominciavano i fuori programma, perché se tanto si perde nel parlarsi ognuno da quell’inferno privato che chiamiamo casa, molto anche si acquista nell’avere tutto il proprio mondo a portata di mano. Qual è il suo posto preferito per scrivere? Questo, proprio questa poltrona. Prende mai appunti per i suoi libri? Sì, in questo quadernetto colorato che sta proprio su questo scaffale, ecco, ve lo faccio vedere, anzi: vi leggo anche l’ultima frase che mi ero appuntata, anche se non posso dirvi di cosa parla il libro. Ci può consigliare qualche libro da leggere per l’estate? Vi faccio vedere proprio le copertine, aspettate che le tiro giù dallo scaffale.
Scrive Franco Lorenzoni in quel libro uscito l’anno scorso (leggetelo, è un libro importante), che durante l’anno scolastico in cui la foto di Aylan, il bambino morto la cui immagine ha fatto il giro del mondo, il mondo è entrato in classe e, in un paese di duemila anime, la sua classe ha dovuto fermarsi e chiedersi cosa stava accadendo, chi erano gli stranieri e chi no, e come si potevano scoprire le carte dei grandi e inventarne di nuove. Scrive: “I bambini ci guardano e guardano il mondo in cui sono capitati, con tutte le imperfezioni, le storture e le ingiustizie che non siamo stati e non siamo capaci di correggere”. Nei tre mesi in cui nel mio strano ruolo di invitata, di ospite, sono entrata quasi ogni mattina nella Dad, in mille Dad diverse, i bambini mi hanno osservato e io ho osservato loro, bambini ciascuno in un modo diverso. E quando, chiusa la connessione, sbirciavo su Facebook i lunghi commenti dei grandi, che litigavano fra loro perché per certi era tutto un disastro e per certi andava tutto benissimo, sapevo che avevano tutti ragione, c’erano classi che sembravano piccoli collegi e altre dove tutto cadeva, non solo la linea. C’erano famiglie per cui era tutto impossibile, far collegare tre figli da pochi metri quadri, e altre che se la cavavano non troppo male. E chi si sarebbe dovuto occupare di colmare quel divario non c’era, forse non esisteva neppure, talmente tanto abbiamo fatto a pezzi la sacralità della scuola (intendo sacralità come una parola viva, giocosa). Poi la giornata continuava, e l’indomani mattina ero di nuovo lì, alla solita postazione, con davanti un’altra classe e un altro giorno, a guardare dentro le vite di cento case sconosciute e lasciarmi guardare la mia, tutte un po’ imbarazzanti, tutte un po’ inadeguate, la mia più di tutte. A tirare fuori taccuini e fotografie – sì, è vero che mia nonna era maestra, ecco una foto di quando mi portava con lei in classe. A giocare all’aliena – né prof, né mamma, né figlia. Parlare nel modo più intenso possibile e nel minor tempo possibile di tutto ciò che mi appassiona e certe volte mi ha salvato: leggere, scrivere, stare su una poltrona per ore a studiare, sbuffare, sentirmi costretta, sentirmi libera. Essere solo un curioso occhio, una voce precisa, un invito imperterrito fino a diventare arrogante: queste sono le nostre stanze, questi i vostri mesi, questo il mio dovere, e anche oggi ne ho fatto solo la metà.
Il Foglio sportivo - in corpore sano