Sterilizzati ma vivi
Il virus ha tolto ai maturandi qualcosa di immenso, “ma questa notte è ancora nostra”
L’esame di maturità ha attraversato i miei sogni negli anni, anzi nei decenni successivi a quella mattina di luglio in cui sono uscita di casa in bicicletta per andare a fare l’orale, ho incrociato un gatto (non nero) e ho desiderato ardentemente scambiare la mia vita con la sua: tutto Dante con la sua camminata languida, e i Sepolcri con quello sguardo altero. Diventare un gatto per non affrontare l’attesa, la nausea, l’ingresso in aula, i commissari, la voce che si spezza, le domande che non ti aspetti. Nei sogni naturalmente scoprivo che pochi minuti dopo avevo l’esame di maturità e non avevo studiato niente.
Nei sogni mi dicevano ma che aspetti, hanno chiamato il tuo nome, devi andare, almeno Leopardi lo sai? Era un momento epico, disastrosamente epico, e nella realtà è stato un momento assoluto, in cui è avvenuta la separazione dall’adolescenza. Sfogliare forsennatamente i libri senza vederli, fumare mille sigarette, entrare in aula seguiti da un piccolo corteo di amici e compagni, tutti uniti da quella paura, e poi dall’euforia. Dopo avere desiderato essere un gatto randagio, ho desiderato essere la bidella, e poi ogni mio compagno di classe che usciva dall’aula lanciando in aria lo zaino: finché, per alcuni meravigliosi minuti, sono stata felice di essere me. Libera, quasi adulta, abbracciata a tutti gli altri, anche a quelli che mi erano sempre stati antipatici, unita al mondo dalla pienezza di quella prova. Oggi quella pienezza non potrà esserci, e l’epica è stata sterilizzata. I ragazzi non possono entrare a scuola, ma devono aspettare il proprio turno al cancello. Quando esce uno, che è stato seduto per un’ora a distanza di sicurezza dai professori, anch’essi a distanza l’uno dall’altro e con mascherine (come si fanno gli sguardi di incoraggiamento con il naso e la bocca coperti? Come si suggerisce con la mascherina?), allora potrà entrare un altro, insieme all’unico accompagnatore che è permesso portare (madre, padre, amico, fidanzato, che probabilmente farà un video per tutti gli altri) e che deve compilare il modulo di autocertificazione sullo stato di salute.
Nell’aula, quindi, o sotto il gazebo per chi ha organizzato esami all’aperto con candidato che suda al sole, ci sarà al massimo uno spettatore, qualche mosca e zanzara, e nessun via vai di professori per bere il caffè e per offrire pacche sulle spalle di incoraggiamento ai ragazzi, nessun padre che si nasconde dietro una colonna, nessun innamorato con una rosa dentro lo zaino. Gli abbracciatori clandestini, intanto, aspettano fuori dal cancello e guardano su Whatsapp il video della domanda su Umberto Eco inviato dall’accompagnatore.
Saranno esclusi gli applausi, a meno che l’amica o il fidanzato accompagnatore decidano di sfidare il ridicolo e alzarsi in piedi da soli, in nome di qualcosa che ha sempre avuto in fondo un unico compito: essere memorabile, attraversare nel ricordo la vita intera, tornare ad afferrarli tra vent’anni.
Il virus ha tolto ai maturandi del 2020 qualcosa di immenso perché comunitario, fisico, di passaggio. In cambio ha offerto un altro po’ di tolleranza nella valutazione, e la prova concreta di una stagione epocale, a cui abbiamo opposto soprattutto la distanza dei nostri corpi: ma il corpo, e la paura, e il sudore, e le mani fredde, il cuore in tumulto di un diciannovenne hanno bisogno, per fiorire, per cambiare, di tutti gli altri corpi. Vicini, vicinissimi, terrorizzati ed esultanti. Per fortuna ci sono cose che nessuna pandemia può rovinare: “Ma questa notte è ancora nostra” vale ancora e varrà per sempre.