Basta corsi professionalizzanti. È la filosofia che aiuta a trovare lavoro
Ragioni per rilanciare la formazione “alta” all’università
Ogni volta che penso all’università mi viene in mente una frase di Romano Guardini: “L’università si ammala appena la verità cessa di essere la norma nella coscienza dell’università”. Evidentemente è per questo che non riesco a rassegnarmi all’idea che l’università debba essere, quando va bene, una scuola di formazione professionale dove si fa ricerca.
Le discussioni estenuanti di questi giorni su come organizzare le lezioni del prossimo autunno, se online oppure “in presenza”, vista l’incombenza del coronavirus, dicono in modo eloquente quanto sarebbe velleitario pretendere che la “verità” possa essere la “norma della coscienza dell’università” come pensava Guardini. Oltretutto nella nostra cultura pochi concetti sono tanto discreditati quanto quello di verità. Trovo tuttavia irresponsabile la disinvoltura con la quale abbiamo accantonato l’idea che l’istituzione universitaria risponda a un progetto sintetico di produzione e di diffusione di un sapere “alto”, accettando il ripiego sui cosiddetti percorsi professionalizzanti persino nei dipartimenti umanistici o in quelli di matematica. Di passaggio, credo che stia qui una delle cause del tanto deprecato deterioramento delle nostre classi dirigenti.
Ovviamente non ho alcuna nostalgia per l’università di ieri o per l’accademia platonica. So bene che viviamo in una società complessa, caratterizzata da una pluralità di punti di vista anche riguardo alle nostre idee sull’università. E indietro non si torna, né sarebbe auspicabile farlo. Ma questa complessità non può costituire un alibi per eludere la questione del senso che vogliamo dare all’istituzione universitaria. Come ha scritto Ortega y Gasset, un altro che sul tema la sapeva piuttosto lunga, l’università non può funzionare in modo adeguato se non si giunge “a determinare rigorosamente la sua missione… Ogni cambiamento, ornamento o ritocco di questa nostra casa che non prenda le mosse dall’aver previamente controllato con energica chiarezza, con sincerità e con decisione il problema della sua missione, saranno fatica sprecata”.
Ma che cosa uscirebbe se provassimo a fare un tale esercizio di “sincerità” con noi stessi e con i nostri colleghi in ordine alla missione dell’istituzione nella quale lavoriamo? Nella migliore delle ipotesi, credo, un generale senso di smarrimento. Non siamo abituati a questo genere di esercizi. La certezza che, facendoli, ci troveremmo invischiati in divergenze profonde ci sembra una buona ragione per lasciarli da parte.
Nel tentativo di rendere i nostri corsi di laurea più professionalizzanti, più aderenti alle esigenze del mercato del lavoro, e di aumentare così la percentuale dei laureati, il nostro sistema universitario (il famoso “tre più due”) investe molto nella didattica, con risultati anche pregevoli, ma il numero spesso troppo grande di studenti, l’inadeguatezza delle strutture e dei finanziamenti non sempre gli consentono di coniugare adeguatamente insegnamento e ricerca. Di conseguenza la stessa qualità professionalizzante dei nostri corsi ne risente. Se poi a questo aggiungiamo un mercato del lavoro di fatto assai poco favorevole ai laureati (si vedano i loro stipendi), ecco che il quadro si complica ulteriormente. Tanto varrebbe quindi cambiare registro.
La mia convinzione è che nei prossimi anni saranno proprio quegli studenti che avranno avuto una formazione capace di andare oltre l’ambito piuttosto angusto dei saperi professionalizzanti ad avere maggiori chance di entrare con successo nel cosiddetto mercato del lavoro. Se debbo dire fino in fondo il mio pensiero, renderei obbligatorio qualche insegnamento di filosofia in tutti i corsi di laurea. Mi piacerebbe, ad esempio, insegnare in un corso di laurea nel cui titolo si dica espressamente che “non serve a nulla”, se non a conoscere bene qualcosa e magari a coltivare la passione per la verità, la bellezza, il confronto delle idee, senza i quali, in senso proprio, non c’è, non può esserci università.
Il nostro sistema universitario, come ho già accennato, sembra privilegiare altre dimensioni. Ma il fatto che, almeno in linea di principio, consenta che si attivino anche corsi di questo tipo o che si faccia lezione con questo spirito potrebbe essere la riprova che nemmeno oggi è venuto meno del tutto lo spirito di ricerca del vero e la passione critica che stanno da sempre alla base dell’idea di università. Si tratta pertanto di non rassegnarsi. L’università dovrebbe rischiare qualcosa in termini di proposte di alto profilo e la politica (non posso riferirmi alle tasse degli studenti, visto il sistema che abbiamo) dovrebbe dimostrare di essere ben lieta di finanziarle. Il tutto con la fiduciosa speranza che anche il mercato saprà premiare questo genere di sforzi.
La morale di quanto sono venuto dicendo finora è piuttosto semplice e potrebbe essere sintetizzata così: nella nostra università la formazione “alta” collegata alla ricerca sta diventando una semplice opzione, qualcosa cioè che può essere coltivato in nicchie più o meno grandi, ma che non rappresenta più l’ispirazione di fondo dell’istituzione universitaria in quanto tale. Considerato che nella maggior parte dei casi i cosiddetti percorsi professionalizzanti non sembrano avere sbocchi occupazionali particolarmente soddisfacenti, credo che rilanciando una formazione “alta” avremo alla peggio cervelli più allenati e flessibili e forse persino più capaci di inserirsi con successo nel mondo del lavoro. Sta quindi a chi ci crede raccogliere la sfida. E a me pare che, pur con tutte le difficoltà, ci siano anche le condizioni per farlo.
generazione ansiosa