Una studentessa in piazza Castello a Torino (Ansa)

filosofia del gesto

Educazione fuori dai banchi

Giovanni Maddalena

Siamo sicuri che il tipo di insegnamento e formazione che si è affermato in occidente sia quello giusto? Indagine

Pubblichiamo un estratto di “Filosofia del gesto. Un nuovo uso per pratiche antiche”, l’ultimo saggio di Giovanni Maddalena in libreria per Carocci (108 pp., 13 euro).


Il tipo di insegnamento e formazione che si è affermato in occidente in età moderna e contemporanea segue il ragionamento analitico, che è considerato spesso l’unica forma di conoscenza. Gli studenti sono immobilizzati quanto al corpo così che la mente possa spaziare. Bloccati nei loro banchi, si insegna loro una capacità di raccolta e di analisi. Quando si chiede loro di fare una sintesi, s’intende un riassunto di quanto analiticamente appreso e non una forma diversa dall’analisi. Le nozioni sono trasmesse per via concettuale e devono rimanere come concetti nelle menti, dove vengono catalogate e immagazzinate e dovrebbero poi riemergere al momento opportuno per essere applicate. Più o meno intorno alla metà del secolo scorso, tale sistema fu già contestato perché le nozioni apprese in questo modo rimangono poco, molte sono inutili nella cosiddetta vita pratica, molte vengono sorpassate dall’indagine prima ancora di poter essere messe a frutto. Nacque così la versione procedurale del medesimo insegnamento: tutto lo sforzo analitico servirebbe ad “aprire la mente”. Conta l’impegno nel procedimento, che dovrebbe essere poi ripetuto in occasioni diverse.

 

Il procedimento è quasi sempre quello dimostrativo, una catena di ragionamenti che dovrebbe fornire una “prova”. Tali catene, però, come aveva intuito Peirce, hanno il difetto di avere la stessa robustezza del loro anello più debole (Peirce, Scritti scelti, 2005: 108-9). Più in generale, tali dimostrazioni – normalmente ottenute tramite connessioni induttive o deduttive – risultano non applicabili in tanti campi esistenziali e spesso risultano parziali anche in campo scientifico. “Dimostrami che mi vuoi bene” è una frase che si colloca più vicino alla fine che all’inizio di una relazione affettiva perché la dimostrazione è impossibile, se i termini sono quelli appresi a scuola. E, d’altro canto, come aveva acutamente notato anche Wittgenstein in Della certezza, anche le nozioni scientifiche di base sono spesso trasmesse per vie indimostrabili in senso scientifico (Wittgenstein 1969). La maggior parte delle nozioni vengono apprese per fede nei maestri che a loro volta hanno fede nei loro maestri. Molto raramente ci sono nozioni o proposizioni che si possono poi verificare per esperimento diretto (ma l’esperimento sappiamo che è un gesto sintetico). La vera catena della conoscenza sembra dunque essere quella umana, fatta di anelli umani riconosciuti per fiducia o certezza morale. Tale certezza morale, però, sembra formarsi per un cumulo di segni e di letture sintetiche di questi ultimi, non a caso agevolati da convivenza e condivisione più che da un esercizio ulteriore dell’analisi. Se poi passiamo al campo della scoperta scientifica, il ricorso all’analisi per capire il momento della creazione sembra essere relativo.

 

Intervistati sull’evento della creazione o della scoperta, molti uomini di scienza ritengono infatti che il senso estetico e il dialogo siano più decisivi della competenza tecnica. La scoperta ha bisogno di una lettura di segni velocissima, che potrebbe ancora rientrare nell’analisi – come in fondo sosteneva Peirce parlando di abduzione – ma ha anche necessità di senso estetico, di dialogo, di esperimenti, di tempo e, alle volte, anche di distrazione dal problema, su cui tornare “a mente fresca”. […]

 

Posti di fronte a tali difficoltà, che si possono riassumere come parzialità del metodo di apprendimento analitico in intensione ed estensione, i ricercatori di pedagogia, a cominciare da John Dewey, appartenente a sua volta alla tradizione pragmatista, iniziarono a contestare il metodo. Dalla geniale Maria Montessori (1970) a Howard Gardner (1987) l’idea è che ci siano tante capacità, da quelle percettive a quelle spazio motorie, da quelle musicali a quelle sociali, che possono essere educate e che devono essere valorizzate. L’esigenza di tutte queste riformulazioni è sempre quella di superare il dualismo teoria/pratica del quale si è parlato. John Dewey lo aveva tematizzato con il discorso del “problem solving” (Dewey 1910). Purtroppo, le soluzioni non sono mai state all’altezza, a parte forse nell’insegnamento infantile montessoriano, riempito di interessante pratica e positività sociale. Man mano che si sale nei gradini del sapere, le soluzioni si indeboliscono perché, anche quando lo si voglia combattere, il dualismo teoria/pratica ricompare sotto nuove forme come quelle dei laboratori separati dalla lezione o quello, peggiore, del disprezzo della ripetizione (che noi sappiamo essere un gesto sintetico, per quanto incompleto). Di fatto, il dualismo non si può superare se non si cambia paradigma della conoscenza. Il tema non è aggiungere pratica alla teoria, ma insegnare in maniera sintetica e non analitica.

 

Tra le forme di insegnamento non è un caso che gli esperimenti di fisica o chimica replicati in aula, la tanto deprecata ripetizione a memoria di poesie o prose, le prove di dialogo in lingua, la composizione di temi scritti, gli stessi esercizi di matematica abbiano avuto una certa importanza nella cultura occidentale. Non hanno avuto tale importanza per la difficoltà o per la strenuità dello sforzo, ossia per motivi morali, ma perché si tratta di forme più o meno complete di gesto sintetico, cioè di azione che porta un significato. Sono azioni che comportano un apprendimento più naturale e più intenso, che si imprime nella memoria. La teoria non è affatto arida se pensata sinteticamente, solo che per apprenderla occorre modellare l’insegnamento secondo questo versante del ragionamento umano.

 

Facciamo un esempio. Dovendo insegnare la semiotica, incominciai a fare lezione con la ripetizione dei concetti di segno, le loro prove, definizioni, derivazioni. Tuttavia, mi resi presto conto che gli studenti – che non erano filosofi ma aspiranti comunicazionisti – mal sopportavano quel tipo di insegnamento analitico, che pure sarebbe stato loro necessario. Provai quindi a pensare come si potesse imparare in atto la semiotica e dapprima li feci diventare bravi nel riconoscimento dei tipi di segno, cioè nell’analisi, utilizzando delle pubblicità. Le pubblicità erano conosciute e piacevano, e la comprensione migliorava. Ma non era abbastanza. Cominciai allora a far loro costruire dei loghi che avessero al loro interno icone, indici e simboli. Si vedevano così i segni in azione, li si doveva pensare e calibrare. Funzionò, così come funzionarono poi i giochi di costruzione di fallacie, la creazione di podcast per apprendere l’uso della retorica, le campagne social o i video per apprendere la teoria del gesto. Conosco professori liceali che hanno trasformato quasi ogni parte del corso in un’attività giocosa, tanto da essere criticati perché gli studenti non avvertono più la fatica dello studio. Di fatto, e spesso senza saperlo, essi implicano nell’insegnamento tipi di segno che non sono solo quelli simbolici e tipi di fenomeni che aumentano la fisicità (secondness) e la creazione di abiti di azione (thirdness) che vengono solo parzialmente messi in atto in una lezione frontale. Gli esperimenti di aule costruite in modo diverso dal tradizionale e quelli di classe rovesciata vanno nella medesima direzione sintetico-gestuale. Anche qui vale la pena fare una nota che smussa un po’ la rigidità delle affermazioni precedenti: le lezioni frontali hanno una loro efficacia proprio perché la vista del professore, per quanto statica, e le parole dette in aula, per quanto soprattutto simboliche, hanno una loro fisicità (secondness) e una loro immagine (iconicità). Una lezione frontale ben riuscita può essere un gesto completo anche se più spesso rimane incompleto nei modi dell’astrazione e della concettualizzazione, quando non della schematizzazione, dell’informazione o della ripetizione. La didattica a distanza, tanto discussa oggi, manca di secondness e rimane una proiezione, per quanto si cerchi di recuperare una fisicità con il ritmo della comunicazione.

 

L’insegnamento sintetico attraverso gesti completi, ossia attraverso azioni costituite da tipi specifici di fenomeni e di segni, studiate dalla fenomenologia e dalla semiotica, ha però alcune caratteristiche salienti, che si possono forse ritrovare più nell’apprendimento di capacità sportive o musicali che non nelle tradizionali discipline scolastiche. Innanzitutto, per apprendere sinteticamente occorre un maestro. L’antica figura del maestro è stata molto criticata, e comprensibilmente, dalla pedagogia analitica. Il maestro è sempre pericoloso, può creare imitazione, sottomissione, culto della personalità, plagio e, nel peggiore dei casi, abusi. Tuttavia, per apprendere sinteticamente occorrono i gesti e i gesti si possono imparare solo partecipando, imitando, ripercorrendo le tracce di qualcuno che li svolge davanti a noi. Anche nel tradizionale insegnamento analitico ciò risulta chiaro: gli esercizi di logica e matematica sono molto facilitati dal loro essere appresi con un maestro e dalle interazioni sociali. Come si è detto, del resto, l’insegnamento ha questo aspetto gestuale che viene sempre poco apprezzato. Come avviene nell’imparare lo sci o il nuoto, l’ideale dell’insegnamento sintetico-gestuale è quello di seguire ciò che il maestro sta facendo, facendo insieme a lui/lei la stessa performance.

 

Un secondo aspetto di questo insegnamento è che, così facendo, si recupera la tradizione, criticandola e rinnovandola mentre si compie il gesto. Come messo in luce da Vincent Colapietro, il jazz e il suo apprendimento sono buoni esempi di ciò che avviene in questo tipo di insegnamento. C’è una tradizione che richiede di essere re-inventata a ogni performance. C’è lo standard che richiede, per sua natura, una continua rimodulazione personale. La crescita di coscienza e di maturità artistica, come quella in qualsiasi campo appreso sinteticamente, è misurata dalla capacità di immedesimazione e, al tempo stesso, di contestazione della tradizione. Il matematico Jean Cavaillès, cercando una buona definizione della propria disciplina, aveva espresso questa congiunzione di tradizione e innovazione in questo modo: la matematica è “attraper le geste e pouvoir continuer”, afferrare il gesto e poter continuare (Cavaillès, Oeuvres complètes, 1994, 186). Penso sia la miglior descrizione di ogni tipo di apprendimento sintetico.

 

Infine, la relazione maestro-discepolo deve comportare la critica, per non essere succube degli abusi ai quali un tale insegnamento si presta. Al proposito, va notato che molti studi indicano la rivoluzione socratica come una ribellione a un insegnamento sintetico che comportava, come ben raccontato dal dialogo platonico del Simposio, una relazione sessuale tra maestro e allievo (Platone 1971, 201-13; Loscalzo 2008). Non a caso, Socrate viene accusato di corruzione dei costumi e dei giovani, cioè di alterare l’insegnamento tradizionale. Dunque, come riproporre un insegnamento sintetico senza incorrere in abusi? Una delle caratteristiche della concezione di realismo ricco che si è vista nei capitoli precedenti è quella di considerare la verità come il termine ultimo della ricerca, così da capire che le credenze e le certezze dell’insegnamento sono sempre fallibili, perché sono sempre un’approssimazione e una tensione alla verità e mai una sua definizione finale. Ciò non implica alcuna forma di relativismo ideologico. Le credenze ottenute hanno gradi diversi di certezza e sono un segno dell’approssimarsi alla verità. Il grado di alcune di queste credenze, diventate ormai certezze, è estremamente elevato, tanto che non si tratta più di poterne dubitare ma solo di inserirle in contesti più ampi. La storia della scienza, del resto, non è un progresso lineare, ma non è neanche lo scontro di paradigmi incommensurabili ipotizzato da Kuhn (1962).

 

Essa consiste piuttosto in ampliamenti dei quadri concettuali, ottenuti tramite ipotesi (abduzioni) e successive verifiche (deduzioni e induzioni). Alle volte tali ampliamenti sono ottenuti tramite cesure e altre volte passano da strettoie, paradossi, occlusioni per poi improvvisamente aprire i nuovi quadri. È una storia fatta di assunzione della tradizione, critica, ricomprensione dei quadri precedenti in quadri nuovi. La vicenda della fisica newtoniana che viene oltrepassata, senza essere negata, da quella einsteiniana è l’icona di tali vicende. L’ampliamento qui proposto del quadro del ragionamento vuole essere uno di questi passaggi. In ogni caso, la critica è sia dell’allievo sia del maestro rispetto a sé stesso. Il gesto non è mai una performance soggettivistica o solipsistica: non c’è mai il gesto perfetto così come non c’è mai il gesto solitario. Il gesto è sempre all’interno di una storia, di una tensione al vero che si sa non afferrabile totalmente ma sempre presente come termine ultimo, di una comunità di ricercatori che sono gli altri esperti nell’attuazione del medesimo gesto. […]