L'INTERVISTA

Il ministro dell'Università e della Ricerca ci spiega perché solo gli atenei più competitivi avranno più soldi dallo stato  

Annalisa Chirico

“Chiamate dirette negli atenei? Sì, ne servono di più”, ci dice Maria Cristina Messa. E aggiunge: "Occorre mobilità nella ricerca: i nostri talenti devono fare esperienza in Europa e l'Italia deve tornare attrattiva per quelli stranieri"

Per la prima volta abbiamo un vero piano di investimento per l’università: è un momento magico”, parola di Cristina Messa, ministro, già rettore dell’Università Bicocca di Milano e, da qualche mese, Signora della Ricerca nel governo guidato da Mario Draghi. Di norma, il ministro Cristina Messa parla assai poco. “La comunicazione non è il mio mestiere e, come dice il presidente Draghi, noi dobbiamo comunicare fatti, non intenzioni”. Durante la pandemia gli scienziati hanno comunicato da mane a sera. 


“Gli eccessi di qualcuno si spiegano con il desiderio di protagonismo che fa parte dell’animo umano. In generale, però, la lotta al Covid ha riavvicinato le persone alla scienza, un dato positivo”. Lo ha detto anche il capo dello stato Sergio Mattarella: “La pandemia ci ha insegnato il senso della ricerca”. “I No vax esistono nel nostro paese ma restano una minoranza. Gli italiani sono corsi a vaccinarsi e con il generale Figliuolo la campagna ha raggiunto il ritmo giusto”. Rimane il fatto che lei comunica poco. “Io non devo acquisire notorietà per candidarmi alle prossime elezioni. Non cerco voti: al termine del mandato tornerò al mio mestiere”. Il suo predecessore, Manfredi, è candidato sindaco a Napoli. “Sì, ho letto”. L’ha colpita la vicenda di Saman Abbas? La ragazza pachistana sognava di completare gli studi in Italia. “L’accoglienza non può prescindere dall’obbligo per chi vive nel nostro paese di adeguarsi alle leggi vigenti e ai nostri valori. L’Europa è l’unico continente che ha posto al centro il rispetto della vita umana”.

Torniamo all’università: avete istituito il Fondo italiano per la scienza con una dotazione iniziale di 50 milioni, il triplo il prossimo anno. La sfida, adesso, è fare ricerca di qualità. “Ai miei figli dico: inseguite i vostri sogni con realismo. Una distinzione netta tra ricerca di base e applicata non esiste, le due si alimentano a vicenda, quello che serve è premiare di più chi ha idee innovative”. E’ soddisfatta degli strumenti previsti nella missione 4 del Pnrr? “Il Pnrr punta sull’innovazione e su quella maggiormente disruptive, affinché la ricerca massimizzi l’impatto sul mondo produttivo”. L’innovazione si intreccia con le missioni 1 e 2 del Pnrr di competenza, rispettivamente, dei ministri Vittorio Colao e Roberto Cingolani. Come vi raccordate? “Non esiste una lotta tra ministeri, diciamo che è più facile raggiungere l’accordo tra ministri piuttosto che far lavorare insieme ministeri diversi. Per cambiare le cose serve una macchina reattiva. Purtroppo gli organici sono ridotti, inadeguati nel numero rispetto allo sforzo richiesto da un piano di 210 miliardi di euro”. Con l’autonomia le università sono diventate “local”, con una mobilità limitata. “Noi puntiamo a incrementare la mobilità dei talenti tra gli atenei a livello nazionale ed europeo. Dobbiamo creare uno spazio di ricerca europeo che consenta ai nostri ricercatori di acquisire esperienze all’estero e all’Italia di risultare attrattiva per chi viene da fuori. E’ necessario parificare lo stato giuridico del ricercatore. La Carta del ricercatore europeo fissa princìpi fondamentali ma va resa più concreta: senza un minimo di garanzie comuni su pensionamento e assistenza sanitaria un ricercatore non si trasferisce all’estero”.

I ricercatori italiani sono tra i meno pagati d’Europa. “Il problema dei bassi salari riguarda ricercatori, docenti e personale tecnico-amministrativo. Senza un supporto di qualità, il ricercatore passa l’80 per cento del tempo tra le carte bollate, abbiamo un personale altamente qualificato, addirittura con dottorati di ricerca, stipendiato con mille euro al mese”. Nel paese del reddito di cittadinanza desta sconcerto. “La ricerca è l’ancella di ogni Finanziaria, per anni abbiamo potuto rinnovare soltanto il venti per cento del personale universitario, i tagli hanno interrotto un’intera generazione. Oggi però le risorse ci sono, servono le riforme”. E’ soddisfatta dell’attività del governo su Pa e semplificazioni? “La direzione di marcia è giusta, ma bisogna fare di più. Abbiamo introdotto le lauree abilitanti e la possibilità di iscriversi a più corsi di laurea. L’applicazione del codice degli appalti all’università ha imposto l’obbligo dei bandi di gara per individuare l’azienda che sviluppi un brevetto: ciò appesantisce l’attività di ricerca con paletti burocratici che vanno rimossi. Dobbiamo rendere le procedure più veloci responsabilizzando gli atenei”. Come? “Aumentando la premialità sulla base del reclutamento. Chi attrae i cervelli migliori merita più finanziamenti, e poi incentiviamo la mobilità, anche per chiamata diretta”. Si allargherà così il divario tra nord e sud? “In Italia il panorama è a macchia di leopardo ma indubbiamente il meridione presenta un deficit di attrattività, condizionato anche dal territorio e dalle opportunità economiche”. Da che cosa dipende la scarsa presenza delle ragazze nelle facoltà Stem? “In realtà, frequentano volentieri i corsi di Matematica mentre sono poche nelle facoltà di Informatica e Ingegneria. E’ un retaggio culturale sul quale dovremmo intervenire con la scuola e con la società civile, dalle associazioni a Confindustria. Nell’approccio all’università serve realismo”. 

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