Il vero esame della scuola è il rientro a settembre
Due anni di lezioni in presenza a singhiozzo, una seconda ondata di Covid con molte aule ancora vuote. Il deficit di socialità, i disagi e le sofferenze dei ragazzi e dei docenti. Qualche idea per il ritorno in classe
Se dovessi riassumere l’anno scolastico con una frase direi che è iniziato male ma è finito meglio del previsto: l’esatto contrario di quanto accaduto l’anno scolastico precedente. Noi che siamo (anche) genitori, avevamo accumulato un certo grado di scoraggiamento: era troppo vivo il ricordo del lockdown e dei mesi di didattica a distanza (un’analisi condotta da ricercatrici della Banca d’Italia ne spiega gli effetti sulle famiglie italiane). Fortunatamente, forti di un anno di esperienza, docenti e scuole hanno operato meglio del previsto quando, a seconda dei cicli scolastici, la didattica a distanza si è ripresentata di nuovo. A casa mia, la situazione più interessante da osservare e da vivere è stata certamente quella del terzogenito, se non altro perché iscritto a una scuola primaria internazionale con programma britannico. Per un principio di precauzione che ci parve eccessivo lo scorso settembre, nella sua scuola si è deciso, fin dall’inizio dell’anno scolastico, di imporre l’obbligo delle mascherine. Perplessi i genitori, dal momento che le scuole italiane erano ancora mask-free, diligenti e collaborativi i bambini, che le hanno adottate senza battere ciglio. Ma l’effetto più plateale della convivenza con il virus è stato una parziale trasformazione del modello anglo-americano di educazione (banchi ma anche divani e tappeti morbidi per lavorare o leggere in gruppo, aule di musica o di scienze, comitati, progetti e assemblee anche alla scuola primaria, piccole agorà dove incontrarsi e mischiarsi tra classi etc…), in qualcosa di assai più simile al modello europeo continentale di scuola (classi con alunni seduti ai banchi, disposti in file ordinate). Come altrove, i giorni in cui ci si muoveva con noncuranza per la scuola erano finiti. I concerti, il coro, gli sport, i giochi e gli eventi hanno assunto caratteristiche radicalmente diverse, quando non virtuali. Per ricreare l’illusione della normalità, da instancabile camminatrice metropolitana, ho percorso le ville romane in lungo e in largo quasi ogni giorno, organizzando incontri tra bambini o inventando, di volta in volta, una scusa per trascinare il figlio novenne in lunghe passeggiate.
Come per altri genitori, la pandemia – e il conseguente lavoro da remoto – ha anche fornito una finestra nelle vite parzialmente opache delle figlie più grandi. Lavorando da casa, ho potuto ascoltare una parte di lezione di letteratura della figlia diciassettenne, incrociata per caso in cucina in un momento di pausa, o chiacchierare di esami e di lezioni universitarie con la primogenita. Per la liceale, l’alternanza della didattica a distanza e dei giorni di presenza creava ogni settimana un patchwork complicato da ricordare. “Ma è andata a scuola o no?” ci chiedevamo con mio marito tra una riunione e un’altra, sforzandoci di ricordare se poche ore prima l’avevamo vista uscire o meno. L’unica prova era “auscultare” la sua stanza, origliando dalla porta: il microfono che gracchiava per l’inizio delle lezioni era la miglior risposta. Ma non c’è solo il nostro microcosmo: amici e lettori di Educazione Globale, il blog che tengo da vari anni, mi hanno scritto tutto l’anno, raccontandomi le loro esperienze: chi aveva avuto il Covid, chi aveva passato l’anno tra falsi e veri allarmi. “La scuola a singhiozzo” l’ha definita un’amica, sconfortata dallo smart working e dalla gestione della Dad della figlia. “Che succede in Italia?” chiedevano invece gli amici di oltreoceano quando le loro scuole erano chiuse mentre le nostre erano aperte. L’impressione complessiva è stata quella di un anno scolastico meno pesante, in cui tutti però ci siamo sentiti molto più stanchi. Stanchi delle restrizioni, che pure abbiamo compreso e rispettato, stanchi delle riunioni online, stanchi delle tante attività cancellate o rimodulate, che ci hanno costretti a ricostruire i pomeriggi dei nostri figli. L’apice della stanchezza è però quella di chi insegna, dopo un anno di lezioni fatte con la bocca imbavagliata.
La speranza è all’orizzonte, ma le conseguenze della pandemia Covid-19 e il suo impatto sull’istruzione e sulle persone non sono finiti. E’ difficile trarre lezioni da una crisi quando ci sei ancora in mezzo, ma è evidente che il digital divide non è stato l’unico problema degli strati più svantaggiati della popolazione. Per chi vive tra povertà e violenza, le scuole – in particolare quelle primarie – da sempre offrono molto di più che istruzione: un luogo sicuro, una parvenza di riscatto sociale, persino una rete di sicurezza alimentare. Semmai abbiamo confermato a caro prezzo come la scuola sia un contenitore di socialità che previene isolamento e depressione. Quando le scuole sono state chiuse – e gli studenti hanno improvvisamente perso l’accesso ad un mondo di interazioni con pari e adulti – la salute mentale di molti è peggiorata e l’abbandono scolastico è aumentato. Non sappiamo che forma prenderà il prossimo anno, ma mentre l’attenzione si sposta sui due temi chiave del periodo, ossia vaccini e vacanze (tra loro interconnessi), nel retro della mente alberga la consapevolezza che, mai come ora, stiamo “vivendo la storia”. Un giorno troveremo le giuste parole per raccontare l’epoca del Covid-19 alle generazioni future.
Elisabetta Cassese, curatrice del blog Educazione Globale
Un senso di comunità da recuperare
Il panorama scolastico su cui si è abbattuta con varie ondate la pandemia del Covid-19 nel corso dei due recenti anni scolastici è stato a tratti spettrale: aule e corridoi vuoti, strade semideserte, case, tablet e telefonini accesi e video a volte precariamente parlanti o gracchianti, in case accoglienti o modeste, afflitte da tempi morti ma anche da guizzi d’intelligenza e di voglia di ascoltare, di parlare e di vedere i docenti e i compagni, di intervenire o di nascondersi nell’anonimato, in cui, tra noia e fatica, si è riusciti anche a insegnare e imparare, a innovare e a motivare con la Dad, mentre altri si sono arresi o ribellati, decidendo di abbandonare la scuola.
Talvolta si sono riempite le strade di ragazzi che inalberavano cartelli di protesta per la serrata di scuole provocata da regole non sempre capite, con slogan commoventi, e si sono visti gruppetti di ragazze e ragazzi seduti per terra davanti alle scuole, per dimostrare il diritto di lavorare in presenza, con quel sentimento di appartenenza e di partecipazione che aveva indotto i ragazzi del Progetto Giovani ’93 a scrivere e a cantare un rap intitolato “Essere scuola non esserci solo dentro”. Non “okkupazioni” distruttive, ma pratica provocatoria del diritto di cittadinanza scolastica. Presidi e insegnanti hanno fatto il possibile per adeguare le scuole alle nuove esigenze della prevenzione e i genitori per far vivere la scuola in casa. Si sono fatte strada, sia pur timidamente, due istanze importanti: da un lato un movimento tendente a recuperare il senso di una scuola comunitaria, dall’altro il bisogno di costruire non solo relazioni e modi di apprendere più creativi, ma anche di rinnovare gli edifici e le infrastrutture scolastiche. Da un lato il sogno e il bisogno, dall’altro il progetto e gli investimenti per l’attuazione del Pnrr. Il nuovo governo Draghi, che vede compresenti i ministri Gelmini e Bianchi, dovrebbe impegnarsi perché la Next Generation Eu trovi nella Costituzione non solo una bandiera da sventolare, ma il Dna della nuova scuola, i cui valori portanti sono la persona, il cittadino, il lavoratore e il consumatore.
Luciano Corradini, professore emerito di Pedagogia generale, Università di Roma Tre
Il primo pensiero: li stiamo isolando nelle loro stanze
Sono le 7.15 di una mattina di novembre, ho appena preso servizio. Gli alunni seguono la lezione dalle loro camere. Io cerco la classe numero 8, apro la porta. Penso tra me e me: questa non è solo un’aula vuota senza studenti. Non è semplicemente una classe deserta, silenziosa. Questo è troppo. Tutti i banchi erano stati accatastati al centro della stanza, a testa in giù, incastrati uno sopra l’altro. Le sedie erano state impilate in due gruppi. Finestre spalancate. Odore di disinfettante. La cattedra era sparita, fuori dal mucchio era rimasto solo un banco, posizionato davanti alla lavagna. Tutto l’occorrente era disposto perfettamente: disinfettante, gel mani e carta assorbente. Al loro posto, sul pavimento, solo i pallini rossi, quelli che tracciano le distanze di sicurezza per gli studenti, fanno sembrare tutto ancora più vuoto. Non ho mai visto un’aula così. Continuo a ripetermi che c’è una pandemia in corso, che lo stiamo facendo per la sicurezza dei nostri studenti e delle loro famiglie. Ma allora perché chiude solo la scuola? L’immagine che ho davanti agli occhi mi fa pensare: questa situazione durerà a lungo. Non si è fatto abbastanza, né quest’anno né lo scorso. C’è chi ha perso i genitori, chi i nonni e chi vive drammi familiari che vanno ben oltre la pandemia. C’è chi non mangia più o chi non riesce a dormire. La scuola per molti ragazzi è la salvezza, il posto in cui si sentono più al sicuro e noi li stiamo isolando nelle loro stanze. Soli con i loro disagi, in un’età in cui i problemi sembrano insormontabili e invincibili. Quello che vedo non è la scuola che si meritano.
Valentina Chindamo, insegnante di Economia aziendale
Convocata per l’emergenza ma senza classe né cattedra
Mi chiamano all’improvviso una mattina di settembre per chiedermi se entro venti minuti posso essere a scuola per iniziare una supplenza fino a giugno. – Che tipo di supplenza? – chiedo – Quante ore, su che materia, in quale pless… – Guardi non c’è tempo, accetta? [suoni da pronto soccorso tipo barelle che si scontrano: saranno i nuovi banchi con le ruote?]. Accetto. E’ una buona giornata: lo capisco perché in meno di 10 minuti ho raggiunto la mia destinazione e trovato subito parcheggio (chi non vive a Roma può capire solo a metà). Entro e scambio subito la bidella per la preside perché ha una messa in piega che nemmeno Melania Trump. Corro in segreteria, firmo il contratto senza leggerlo (non c’è tempo) e vengo scaraventata in classe. Mi ritrovo davanti a venti ragazzetti tutti seduti in ordine e con la mascherina tirata su. Ci presentiamo e li testo subito con qualche domanda a bruciapelo sulla storia d’Italia: essi mi spiazzano con risposte giuste e argomentate come nei migliori sketch di Valerio Lundini. Segue un’ora di buco: sua immensità la bidella mi fa accomodare in sala professori dove alla mia destra c’è un distributore di caffè che – attenzione! – restituisce il resto. Mi siedo su una poltroncina e leggo il mio nuovo contratto. Essendo iscritta alle Gps 2020 (Gps non è il navigatore satellitare, ma le Graduatorie provinciali per le supplenze), sono stata convocata in questa scuola per l’emergenza pandemia. Farò parte dell’organico di potenziamento, corpo docente, squadra anti Covid. Significa che quest’anno non ho una cattedra; non ho classi né programmi né materie né un orario. Non è certo l’incarico che stavo sognando ma let’s go, Ghostbusters! (sono finita in quarantena dopo una settimana pure io). In qualche modo arriviamo a giugno, io però comincio a sentire una specie di malessere. – Datemi una classe! Nell’anno Covid-2021, ciò che più mi è mancato è stato avere una classe. Una classe mia, in cui conosco nomi cognomi e tic di tutti quanti. Volevo qualcuno a cui affezionarmi. Andare a scuola senza entrare in classe è una birra analcolica, un paese senza esecutivo, un amore senza sesso.
Arianna Salatino, insegnante e blogger