Di nuovo al mio posto, a scuola. Diario di una docente  

Stefania Auci

Passato e presente si mescolano al rientro in classe, fra vecchi e nuovi colleghi, ragazzi con occhi e pensieri rivolti al futuro. Consapevoli di una quotidianità che non può essere data per scontata

Il rumore dei tacchi riecheggia nell’atrio della mia scuola – l’Istituto alberghiero “Paolo Borsellino” –, una distesa di marmo segnata da migliaia di passi. “E’ tardi! E’ tardi!” mormoro, neanche fossi il Bianconiglio. Sì, sono in ritardo come al solito, ma non riesco a ignorare i cartelloni, le foto e i riconoscimenti appesi alle pareti dipinte di verde. Perché su molti c’è scritto 2019, un anno che, ne sono certa, sarà oggetto di racconti epici e malinconici insieme, che inizieranno con frasi del tipo: “A quel tempo, tutto era normale…”. Ma non voglio scrivere cose già dette, non ancora. Sono troppo occupata a capire che cosa sto provando adesso. E mi rendo conto che, oltre all’ansia di ogni nuovo inizio e all’amarezza di com’è stata gestita la situazione della scuola in questi due anni, c’è un’emozione dolce, consolatoria, che riporta in superficie il ricordo di tutti gli altri primi giorni di scuola. Giorni preziosi, che hanno la stessa luce di una mattina di sole dopo una notte di pioggia. Poi, non appena salgo le scale, si aggiunge una tenerezza che non provavo da tempo: quella per gli alunni delle prime classi. Cercano sostegno a vicenda, il timore per quella nuova esperienza nascosto da voci troppo acute o sotto un trucco un po’ troppo pesante. E, poco distante, c’è il signor Giovanni, il collaboratore scolastico sempre disponibile e con un talento innato per la cura delle piante. Sembra che non si sia mai mosso da lì: rivedere il suo grembiule bianco e il suo sguardo deciso mi rincuora. A sua volta, lui mi stringe un braccio e mi dice, con un sorriso: “Arrè ccà semu”. Sì, per fortuna siamo di nuovo qui. 


Il nuovo: seduta a una scrivania, c’è una collega che misura le temperature e controlla i green pass. Il vecchio: la porta della sala per gli incontri con le famiglie è socchiusa e una luce calda illumina il consunto tavolo di formica e le sedie scompagnate. Tornerò a passare parecchie ore del mio tempo in quella specie di confessionale? Lo spero. Ed ecco che il presente e il passato si mescolano: i nuovi colleghi, gli alunni che si sono diplomati e che ne hanno approfittato per venirci a salutare di persona sembrano riempire il vuoto lasciato dai professori andati in pensione e soprattutto da Luciano, un collega da cui ho imparato moltissimo. Partenze che avevano bisogno di un abbraccio e che invece si sono consumate freddamente, a distanza, per videoconferenza o con qualche frase in chat. Per fortuna, al suo posto c’è Anna Maria, un’insegnante eccezionale, che ha un cuore grande come pochi. Ci guardiamo e facciamo un cenno di saluto, frettoloso ma colmo di tenerezza.


Non c’è bisogno di sollevare la mascherina, di parlare, di dire ad alta voce: “Come è stato crudele, ingiusto, il periodo che abbiamo vissuto”. Non è tempo di rimpianti. E’ tempo di coraggio: il coraggio di un abbraccio ai colleghi che incontro, con la promessa che torneremo a ridere insieme. Poi suona la campanella e, mentre salgo altre scale, una valanga di ragazzini mi passa accanto, gridando e ridendo. Qualcuno mi dice addirittura, con un sorriso: “Oh, professore’, bbonu fu u’ libro?”. E io sorrido di rimando e annuisco. Lì le pareti sono bianche e gialle. E lì, in mezzo ai segni lasciati da generazioni di studenti, ritrovo una mappa nota a me sola: una descrizione delle emozioni fissata sull’intonaco da tratti di penna e di Uniposca. Per me, è la firma di questa scuola. E anche il suo modo misterioso e muto di dirmi: non ti preoccupare, sono ancora qui, possiamo riprendere da dove avevamo lasciato. 
Saluto il collaboratore scolastico al piano: un viso nuovo, sconosciuto. Un nuovo inizio anche per lui. Chiedo dove si trovi la mia classe, una quinta. Nel contempo solerte ed esitante, lui me la indica e quasi mi segue per accertarsi che non sbagli strada. Nel corridoio altri visi, altri abbracci. 


L’ansia scivola via non appena entro nell’aula grande, luminosa, affacciata sul cortile interno, con quattro file di banchi singoli e sedie nuove. La lavagna, invece, è ancora vecchio stile. Ma va bene così. Non riuscirò mai ad accettare con distacco il cambiamento che, nel giro di pochi mesi, avviene nei ragazzi. Davanti a me ci sono persone che ben poco hanno ormai dell’adolescenza e molto hanno dell’età adulta. Lo leggo nelle voci, nei gesti, nel trucco, nei vestiti. Sono ancora in classe, è vero, ma il loro sguardo è impaziente, rivolto al futuro. Stanno chiacchierando e non li interrompo, non subito: uno dice che vuole cercare lavoro fuori dalla Sicilia, un’altra che sta pensando di andare a convivere con il suo ragazzo, un’altra ancora parla dell’università, un altro ancora spiega com’è il concorso per entrare nelle Forze armate. Li ascolto, li scruto. E’ come se volessero scrollare la vita, farla avanzare con la sola forza delle loro braccia, con l’entusiasmo dei loro desideri. E’ come se ogni loro parola spingesse la pandemia più in là.


Le due ore seguenti le attraverso con la stessa sensazione di quando si corre e si rompe il fiato. La normalità è una strada che si distende davanti a me, piana, ricca di aspettative. Le voci degli altri professori, che arrivano dalla porta aperta, creano una playlist imprevedibile: tra modalità di sterilizzazione del latte e riflessioni sul romanticismo, tra monomi e polinomi, tutto si amalgama in un coro sussurrato, in una singolare melodia difficile da spiegare – e da apprezzare – per chi non l’ha mai sentita. E ora che ci sono di nuovo dentro – ora che faccio di nuovo parte del coro – avverto un groppo alla gola, pungente e dolce insieme.


Ci saranno giorni in cui la stanchezza avrà il sopravvento. Giorni in cui dovrò scontrarmi con la difficile realtà di questa scuola palermitana. Ma oggi no. Oggi voglio tenermi strette tutte queste emozioni, questo cauto entusiasmo, questa consapevolezza di una quotidianità che nessuno di noi potrà mai più dare per scontata.
Oggi voglio essere qui. Al mio posto.

 

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