Diario di un prof
Quelle tre parole scritte sulla lavagna: comunità, fragilità, conoscenza
Bisogna appassionare in ogni modo gli studenti dopo questo tempo di paure e solitudini, che inevitabilmente ha rallentato lo studio. Gli insegnamenti della pandemia
"Anche il Covid forse ci ha insegnato qualcosa, forse persino da questa minaccia costante abbiamo ricavato qualche pensiero utile…”, ho detto, e la discussione è iniziata, interventi, timidi silenzi, fertile caciara, e alla fine ho scritto tre parole sulla lavagna, per fermare tre concetti preziosi usciti dalle tante parole che si sono incrociate tra i banchi e la cattedra. Comunità, fragilità, conoscenza: tre piccoli passi avanti verso la consapevolezza. Abbiamo sofferto a lungo la solitudine, chiusi nelle stanze, aggrappati allo schermo del computer: e però in parte era così anche prima, perché la nostra società in fondo è basata su un individualismo esasperato, ognuno per sé, ognuno a costruire il suo solitario percorso verso chissà quale meta, ognuno ad armare il suo bunker roccioso e diffidente. E invece ora è chiaro, chiarissimo, che dobbiamo immaginare e produrre una società più solidale e generosa, perché nessuno si salva da solo, perché è giusto ritrovarsi insieme a condividere la vita.
E per colpa o grazie al virus abbiamo nuovamente scoperto anche quanto siamo vulnerabili e fragili: per tanti anni abbiamo voluto dimenticare questa condizione così naturale dell’esistenza, tutto intorno a noi esaltava la nostra ridicola pretesa di onnipotenza. La fuga del tempo che corre e non ritorna, la nostra deperibile natura, la presenza all’orizzonte della morte erano relegati in cantina, nascosti, negati: in terrazza solo spavalderia, tracotanza. E invece ora torna evidente quanto siamo fragili e quanto ogni momento è prezioso: nessun attimo va sprecato, perché siamo fatti di un numero grande ma non infinito di attimi, sabbia che scorre rapida nella clessidra. Il pensiero della fine che fetente sta sempre in agguato dietro l’angolo deve rendere la nostra vita più intensa, più ricca, più amata. E abbiamo scoperto anche quanto sia importante cercare una conoscenza più profonda delle cose, nella scienza come nell’arte: l’ignoranza, da tanti rivendicata, quasi sbandierata come misero sinonimo di autenticità, ci lascia inerti, svuotati da ogni bella energia. La lunga chiusura di cinema, teatri, biblioteche, librerie, sale da concerti ha desertificato il paesaggio della fantasia e della ricerca. È come se avessimo perduto la dimensione più audace e nobile dell’esistenza, quella che non si accontenta, che pone domande e cerca risposte.
Già Dante nel Convivio spiegava che solo la conoscenza rende piena e felice la vita, è un banchetto al quale tutti devono potersi sedere, per una ricca porzione o almeno per qualche briciola. Comunità, fragilità, conoscenza non sono parole retoriche e vuote, se sanno indicare momenti reali dei nostri giorni. Così mi sono commosso come un ragazzino pochi giorni fa, quando i miei studenti hanno preparato una piccola festa a sorpresa per i miei 65 anni, con la torta mimosa (“Che dolce le piace, professore?”, mi avevano domandato quasi per caso, ma non per caso, il giorno prima) e le canzoni d’auguri e i battimani e le candele da spegnere: di colpo ho sentito che ero parte di qualcosa di vivo, che in fondo per loro significavo qualcosa di buono, che erano contenti come me di condividere tutti insieme quel momento fugace, che siamo una classe, cioè una piccola e meravigliosa comunità. Ecco, sì, un momento fugace, perché gli anni passano di corsa, sempre più affannati, e ogni ora deve essere spesa bene, siamo creature di passaggio e ogni metro è un passo da fare con attenzione, con riconoscenza.
Possiamo evitare in ogni modo di pensarci, ma anticipare il pensiero della morte, come dicevano i filosofi dell’esistenzialismo, averlo chiaro dentro se stessi, rende ogni compleanno ancora più emozionante. Non c’è nulla di tetro in tutto ciò, solo una radiosa consapevolezza, pensavo soffiando sulle candeline. E dopo la festa, la lezione. Ora la scuola torna a essere il centro della cultura italiana, il tempio, magari un po’ scalcagnato, della conoscenza, e bisogna appassionare in ogni modo gli studenti dopo questo tempo di paure e solitudini che inevitabilmente ha rallentato lo studio. E allora entriamo decisi nelle novelle del Verga, cominciamo a leggere “La lupa”, “La roba”, “Cavalleria rusticana”, “Rosso Malpelo”, lasciamo che si sprigioni tutta l’energia creativa della nostra letteratura verista. Andiamo avanti, nonostante tutto, con quelle tre parole scritte con il gesso sulla lavagna, comunità, fragilità, conoscenza, convinti e con la bocca ancora allegramente sporca di panna e di mimosa.