Livellamento e condiscendenza, così si distrugge il senso dell'educare
Le diseguaglianze cognitive sono ferite per la società aperta. Occorre invertire la rotta e non considerare “un attentato alla ‘libertà di scelta'” qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di valori
Essendo l’uomo un animale culturale, ne consegue che quando si parla di scuola, di educazione o di formazione venga sempre presupposta una determinata tradizione, e quindi il riconoscimento di determinati valori: la conoscenza, l’impegno, la curiosità, la tolleranza, il rispetto, tanto per citarne alcuni. Ciò significa, tra le altre cose, che il compito degli educatori è in primo luogo quello di aiutare le generazioni più giovani a comprendere, ad accettare e ad appropriarsi di tali valori in uno spirito che ovviamente sappia anche migliorarli e, se necessario, metterli addirittura da parte. Questo almeno è quanto dovrebbe accadere in una società aperta. A differenza delle società chiuse, dove educare equivale a una sorta di automatismo tale per cui chi viene dopo non ha altra scelta che seguire in tutto e per tutto le orme di chi l’ha preceduto, le società aperte sono contrassegnate da una pluralità di opzioni non soltanto sul piano politico, ma anche su altri piani, da quello estetico a quello etico e religioso. Di qui la tendenza a misurarsi continuamente con la propria tradizione, ad avere con essa un rapporto, diciamo così, critico, che rende i processi educativi più difficili, meno scontati, ma proprio per questo molto più importanti, al fine di evitare, certo, che la tradizione diventi opprimente ma anche che la critica diventi in qualche modo vandalica, che cioè si trasformi in un semplice processo di negazione o di emancipazione dalla tradizione stessa. Invece dobbiamo purtroppo constatare che, salvo rare eccezioni, la scuola sembra aver abdicato a questa sua funzione critica e formativa.
D’altra parte come è possibile educare in una società che non è più capace di riconoscere le ragioni per cui è necessario educare?
In nome di un malinteso pluralismo, si ritiene ormai che un valore, uno stile di vita valgano l’altro e tutto sembra diventare ugualmente possibile. Di conseguenza nessuno più si sente responsabile del bene dei nuovi venuti. Nella scuola, anziché puntare alla loro formazione, ci siamo affidati ora a formule fantasiose volte a privilegiare i metodi sui contenuti, le competenze sulle conoscenze, ora alla neutralità delle nozioni e dei valori insegnati, generando così spaventose diseguaglianze cognitive, disinteresse psicologico e relativismo ideologico, ma nessuna vera formazione. Non è casuale che in questo processo siano andati in crisi sia la funzione educativa della famiglia, sia il significato della tradizione, sia la figura del “maestro” chiamato ad attualizzarla con intelligenza, partecipazione e passione. Quanto ai nostri figli, essi non solo non sanno più nulla di storia, ma non conoscono più nemmeno il passato delle loro famiglie e il nome dei loro nonni.
In compenso si moltiplicano le discipline di “studio”, ma tutte vengono trattate con la medesima superficialità, di modo che alla fine resta poco o nulla. Come ha denunciato Christopher Lasch trent’anni fa, ci siamo ormai assuefatti all’idea che “non si debba mai chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile”; ragion per cui, liquidando come “intrinsecamente elitaria” qualsiasi proposta educativa incentrata sulla qualità, perdiamo il senso stesso dell’educazione. Anziché indirizzare l’attenzione dello studente verso quello che, all’inizio, egli può forse faticare a capire, ma il cui fascino potrebbe anche afferrarlo, si preferisce ricorrere, tranne in rarissimi casi privilegiati, alla semplificazione, al livellamento, all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in una pagina memorabile della sua autobiografia intellettuale, definisce non a caso “criminali” e dietro i quali vede nascondersi un sostanziale “disprezzo per le nostre capacità latenti”, una “condiscendenza volgare verso tutti coloro che vengono a priori giudicati incapaci di miglioramento”. Sembra insomma non esserci più posto per la formazione (la famosa Bildung), cioè per quel processo attraverso il quale, con impegno e rigore, l’individuo assimila criticamente un determinato universo di valori in tutte le discipline che studia: dall’aritmetica alla grammatica, dalla storia alla geografia, dalla filosofia alla religione. Per dirla ancora con Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di valori rischia oggi di venire considerato “un attentato alla sua ‘libertà di scelta’”. Ma proprio se abbiamo a cuore questa libertà di scelta occorre invertire la rotta.
Come recita un aforisma di Nicolás Gómez Dávila, “educare l’uomo è impedirgli la libera espressione della sua personalità”. Non si tratta ovviamente di ritornare all’educazione autoritaria di una volta. Ormai credo che un salutare antiautoritarismo sia stato digerito pressoché da tutti. Si tratta piuttosto di non dimenticare la realtà e la sua durezza, di non dimenticare che la libertà esige disciplina e consapevolezza, di non dimenticare insomma che non rimarremo per sempre bambini e che la nostra riuscita nella vita, la nostra felicità dipenderanno soprattutto dalla “coscienza” che avremo acquisito della realtà e di noi stessi, nonché dalla nostra capacità di vivere in armonia con entrambi senza velleitarismi, abdicazioni o risentimenti. Se vuole rimanere tale, è precisamente di questa Bildung che ha bisogno la nostra società aperta, non delle chiacchiere pedagogiche cui assistiamo da oltre cinquant’anni.