diario di un prof
Quando l'abito fa il monaco. I ragazzi, il Covid e un pigiama di flanella
Il rientro a scuola tra vecchi timori, Dad e una lezione sul dandismo
Il rientro a scuola dopo le vacanze di Natale e dopo l’impennata dei contagi è stato all’insegna della prudenza estrema, venata da un leggero sconforto e anche da una certa irritazione che si percepisce bene nell’aria: ci si saluta a distanza, ci si chiude nel proprio metro quadro, in cattedra e nei banchi, si ricomincia da capo ma con il timore mai detto, mai confessato, che non finirà mai più, che a ogni passo avanti verso l’uscita dal tunnel corrisponda inesorabilmente la crudeltà di una natura matrigna che si fa beffe delle nostre speranze e che allunga per dispetto i chilometri dentro al nostro tunnel. E allora scatta un fatalismo che somiglia da vicino a una rassegnazione: sia quel sia, vada come vada, andiamo avanti.
In quasi tutte le classi ci sono due positivi più altri studenti che durante le feste hanno avuto contatti con amici e parenti positivi: stanno tutti affacciati alle finestrelle della lavagna elettronica, collegati da casa. Faccio lezione a loro e agli studenti che sono confinati nei banchi, mi volto di qua e di là cercando di parlare a tutti, ruotando su me stesso come una trottola impazzita. Oggi in quinta abbiamo affrontato il tema del dandismo, cioè di quell’atteggiamento tipico della cultura del Decadentismo di manifestare anche nell’abbigliamento il desiderio di differenziarsi dalla mediocrità borghese. Insegno in un istituto professionale di moda e dunque il tema mi sembra possa interessare. Cerco sempre di creare dei nessi tra il passato e il presente, per accendere l’attenzione. E così dopo aver raccontato gli atteggiamenti dandistici di Lord Brummel e Baudelaire, di Oscar Wilde e D’Annunzio, quell’ostentazione di eleganza artificiale, quel disprezzo per il conformismo mescolato a una discreta dose di narcisismo, ho chiesto ai ragazzi se adesso ci sono artisti che ripetono a modo loro una volontà di differenziarsi e di stupire anche con i vestiti, il trucco, l’acconciatura.
Ha funzionato: molti hanno fatto i nomi dei Maneskin, di Achille Lauro, di Morgan, e qualcuno, ancora più preparato nella storia della musica, ha citato David Bowie e il glam rock. A questo punto il discorso si è allargato: quali altri movimenti hanno espresso il loro particolare modo di stare nel mondo tramite i vestiti? Qualcuno si è ricordato dei ragazzi emo che stavano parcheggiati ogni venerdì pomeriggio e ogni sabato sotto le chiese gemelle di piazza del Popolo. Cupi nell’anima e cupi negli abiti, e però anche eleganti: pallidi, emaciati, ma raffinati, desiderosi di sbattere in faccia al mondo in modo evidente tutta la loro sofferenza. E poi i punk, Sex Pistols e Clash, giubbotti di pelle, spille infilzate qua e là, anfibi zozzi, rabbia nella musica e rabbia nel look semplice e aggressivo. E anche per gli hippy era la stessa cosa, anche se rappresentata in un’altra maniera: la dichiarazione di rifiuto di una società competitiva e consumistica passava per le coroncine di fiori, le gonne lunghe, i sandali di cuoio, le collanine colorate e i capelli lunghi. Persino il nudismo era una forma paradossale di abbigliamento contestativo. Insomma, è stata una lezione divertente, e mi sembra che tutti abbiano compreso che da un certo momento in poi l’ostilità al pensiero dominante è stata espressa anche tramite le scelte dei vestiti. E alla fine è stato quasi naturale domandare ai miei studenti quale fosse il tipo di abbigliamento caratteristico dei giovani di oggi, quello in cui si ritrovano le insoddisfazioni, le proteste, il malessere e i sogni. Qual è il vestiario tipico nel tempo del Covid, in questo tempo solitario di disagio sociale e esistenziale?
Per un po’ nessuno ha risposto, pensavano e evidentemente non trovavano nulla da dire. “Prima erano i vestiti sportivi – ha detto una ragazza – le tute, le scarpe da ginnastica, le canotte, però forse ora no, ora non più…”. E allora adesso qual è? – ho insistito – qual è il vestito di quest’epoca stanca, amara, ingiusta? Dall’ultimo banco è arrivata una voce, una parola. Parla più forte, non ti ho sentito. “Niente professò, dicevo tanto per dire…”. Dai su, ripeti, coraggio. E allora la voce s’è fatta più forte, più decisa, scherzosa e triste allo stesso tempo: “Er piggiama, professò, er piggiama de flanella…”.