pro e contro
La dad non è tutta da buttare
La priorità di Draghi che “la scuola sia aperta in presenza” è sacrosanta. Ma non può essere solo uno spot retorico. La rivoluzione digitale dei prof. dello scorso anno ha portato anche molte novità che sarebbe sbagliato cancellare
"Il governo ha la priorità che la scuola stia aperta in presenza”, ha detto qualche giorno fa Mario Draghi, e si potrebbe chiudere qui il dibattito, prima ancora di iniziarlo. Era la famosa conferenza stampa “di riparazione” per spiegare (ai giornalisti, il resto degli italiani avevano capito lo stesso) i più recenti provvedimenti del governo, compresa la decisione di riaprire regolarmente le scuole dopo le vacanze di Natale, pur davanti all’impennata di Omicron. Draghi aveva specificato, senza indulgere alla retorica che di solito trabocca quando i politici parlano della scuola, territorio che raramente conoscono: “Basta vedere gli effetti di disuguaglianza tra studenti, scolari, della Dad lo scorso anno per convincersi che questo sistema scolastico che può essere necessario in caso di emergenze drammatiche provoca disuguaglianze destinate a restare tra chi ci sta di più e di meno, tra nord e sud e che si riflettono su tutta la vita lavorativa”.
Draghi si concentrava dunque sulla disuguaglianza nelle possibilità di apprendimento, ma ci torneremo poi. Prima va notato che la maggior parte delle analisi e, purtroppo, anche di tanti elzeviri a mezzo stampa, si concentra in realtà sugli effetti psicologici dei lunghi mesi in solitudine – oltre un anno tra lockdown e sliding doors di precari rientri – per bambini, preadolescenti e adolescenti. Rimasti isolati davanti a un computer, o addirittura con in mano uno smartphone inadeguato. Disagio reale. È un dato evidenziato da numerose indagini dell’ultimo anno. Sono cresciuti, spesso raddoppiati, i disturbi del comportamento, di ansia e depressione, di apprendimento. Una ricerca della Fondazione Soleterre condotta assieme all’Unità di ricerca sul trauma dell’Università Cattolica di Milano, di cui ha parlato lo scorso giovedì la nostra pagina GranMilano, ha verificato su un campione significativo che il 17 per cento dei giovani dai 14 ai 19 anni pensa “quasi ogni giorno”, o “per più della metà dei giorni”, che sarebbe meglio morire o farsi del male. Un riflesso evidente di quasi due anni vissuti in una normale anormalità rinchiusa.
Come ha detto Davide Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, in un’intervista al magazine Vita.it, la pandemia ha evidentemente “amplificato il disagio psicosociale già presente nei giovani”, e “oggi abbiamo bisogno di una scuola che aiuti i ragazzi nella crescita psicologica”. Notando però che “la trasmissione di contenuti si può fare su internet”. Perché anche affermare che sia tutta colpa della Didattica a distanza non è la risposta giusta. Al dubbio che la Dad sia stata non adeguata ma, come ha detto Draghi, solo un sistema che ci permesso di andare avanti nell’emergenza, Lazzari risponde: “Gli estremismi sono sempre falsi. E’ evidente che se non puoi fare altro ricorri alla Dad piuttosto che al nulla. Però occorre sapere che questo ha delle conseguenze, soprattutto in termini psicologici e di valore degli apprendimenti”.
Ovviamente andrebbe tenuto in conto che il lockdown scolastico ha soltanto peggiorato un disagio diffuso, non imputabile solo all’emergenza Covid. Una commissione ministeriale che aveva indagato, già prima della pandemia, i livelli di benessere e malessere nelle scuole riportava che il 27 per cento del campione dichiarava di stare “così così” e addirittura il 73 per cento “male, o di non essersi mai sentito bene in classe”. Così che certi commenti che capita di ascoltare, o di leggere sui giornali, appaiono a volte frutto di poca consapevolezza di come sia complessa la condizione giovanile. Quasi che molti abbiano “scoperto” gli adolescenti solo perché se li sono trovati chiusi dentro casa. Per non dire di certe punte melense degli addetti ai lavori mediatici, come lo psichiatra Paolo Crepet: “Delle parole di Draghi in conferenza stampa salvo solo una cosa: bisogna tenere aperte le scuole. Questo deve essere un mantra”. Un mantra. Addirittura.
Mario Draghi ha posto la questione in termini oggettivi e pragmatici: i danni verificati all’apprendimento, le evidenti differenze nelle condizioni sociali, la necessità (“probabilmente ci sarà un aumento delle classi in Dad nelle settimane settimane, ma quello che dobbiamo respingere è un ricorso generalizzato alla didattica a distanza”). E ha poi aggiunto che è difficile spiegare perché le scuole debbano restare chiuse se – oltre ai dati non proprio allarmanti presentati dal ministro Patrizio Bianchi – i ragazzi possono liberamente “andare in pizzeria”. È il problema del “che fare”, del come procedere. Invece la battaglia politica e opinionistica s’è fatta, ancora una volta, retorica. Da un lato lo stesso governo, che ha fatto del “mai più scuole chiuse” un punto d’onore, anche prima di sapere se sarebbe stato possibile e di aver predisposto tutte le misure, dai tamponi ai ricambi d’aria, necessari.
Poi un discorso pubblico vagamente ciellenista e di nessuna attinenza con la realtà della scuola, come se il problema invece che il contrasto del virus fosse la lotta di liberazione, e qui la medaglia può essere assegnata a Massimo Recalcati, sulla Stampa del 13 gennaio: “Bisogna riaprire la scuola, tornare a studiare, ricacciare i mostri, generare cultura autenticamente democratica… Senza una scuola degna di questo nome un paese cancella la propria identità”. Infine la sinistra (la destra non è pervenuta nemmeno in questo dibattito se non per recriminare sulle inefficienze del governo, un po’ facile), quella ufficiale del Pd: per Enrico Letta la “Dad è l’esperienza più mortificante di tutte”, dimenticando che nella primavera del 2020 non esisteva altro. Ma è proprio la sinistra a vivere in materia le contraddizioni più assurde, con governatori come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano (sua la esorbitante frase “la Dad è un diritto”) pronti a tenere chiuse le scuole per una oggettiva, e colpevole, impreparazione a farle funzionare e per una soggettiva, e ugualmente colpevole, accondiscendenza populista verso le famiglie che “preferiscono” tenere i figli a casa. Una contraddizione ideologica stridente se si pensa – lo ha ricordato, a De Luca, Antonio Bassolino in una intervista al Foglio – che la scuola come luogo aperto (il tempo pieno), di cittadinanza e riscatto sociale è sempre stata uno dei punti qualificanti della sinistra.
Ma giunti a questo punto si può provare a spostare lo sguardo. Draghi, che senz’altro non dimentica i disagi psicologici, ha parlato di un deficit misurabile di apprendimento e del fatto che questo deficit è destinato a pesare di più su chi è più esposto alle didattiche a distanza e su chi ha meno strumenti per affrontarle (nord e sud non è, in bocca a Draghi, una frase fatta). Ciò che ha lasciato trasparire, anche da un breve accenno di conferenza stampa, è una visione precisa e maturata in precedenza. In un discorso che qualcuno definì “programmatico” al Meeting di Rimini, ma tenuto molto prima di essere chiamato a Palazzo Chigi, disse: “Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. Nel discorso programmatico del febbraio 2021 era stato ancora più esplicito: “Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura”. E lo disse con la consapevolezza che non tutti i livelli di apprendimento sono uguali: “Le ragazze e i ragazzi hanno avuto, soprattutto quelli nelle scuole secondarie di secondo grado, il servizio scolastico attraverso la Didattica a distanza che, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Un dato chiarisce meglio la dinamica attuale: a fronte di 1.696.300 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, nella prima settimana di febbraio solo 1.039.372 studenti (il 61,2 per cento del totale) ha avuto assicurato il servizio attraverso la Didattica a distanza”.
Perché la Dad, esattamente come la scuola e al di là delle retoriche, non è uguale per tutti. L’ex ministra Lucia Azzolina – che è di recente intervenuta sulle nostre pagine per denunciare “il rischio è di tenere le scuole aperte solo sulla carta, mentre migliaia di classi vanno in Dad” – ai tempi del primo lockdown aveva dovuto ammettere, in Aula, che “degli 8,3 milioni di iscritti nelle scuole italiane più di 6,7 milioni erano stati raggiunti dalle attività di didattica a distanza”. Cioè che un milione e 600 mila studenti erano rimasti al buio. Ma questi divari esistevano già prima, la Dad li ha solo amplificati. O vogliamo dimenticare i dati sull’abbandono scolastico, analizzati per regioni e per fasce sociali? La cosa peggiore del dibattito di queste settimane è l’assolutizzazione, come dice lo psicologo Lazzari. Da un lato chi fa della “presenza” un dogma, dall’altra un menefreghismo interessato.
Guardando con più oggettività a queste settimane – e tenendo conto che i dati su contagi e assenze forniti da Bianchi appaiono tutto sommato gestibili – l’impressione è però di una nuova, ennesima occasione persa per la scuola. È vero, il governo ha stanziato molti fondi (e già molto aveva fatto il precedente). Più di 900 milioni in manovra, ai quali vanno aggiunti gli oltre 17 miliardi previsti nel Pnrr per interventi strutturali di medio e lungo periodo. Il piano del ministro dell’Istruzione prevede “400 milioni per permettere alle scuole di continuare ad avvalersi del personale aggiuntivo assunto a settembre per gestire meglio l’emergenza sanitaria”, 300 “per valorizzare la professionalità degli insegnanti” e qualche decina per aule e strutture. Per l’innovazione didattica, per la rivoluzione digitale che pure era iniziata con la Dad, per i ragazzi italiani malamente connessi, quasi un terzo c’è poco. Ma riaprire le scuole “come prima”, per tornare a “prima”, può davvero essere l’obiettivo? C’è un grande non detto, nei discorsi sulla scuola e anche nella destinazione dei soldi (ci sarebbe ad esempio da chiedersi se tutte le risorse destinate a stabilizzare personale, soprattutto non docente, come chiesto anche dal recente e fallimentare sciopero, siano necessarie).
La crisi della scuola esisteva anche prima ed è una crisi di sistema. Di qualità, di strutture, di divario tra istituti di serie A e di serie B – la grande menzogna per cui frequentare un liceo pubblico in centro a Roma equivale a frequentare un onnicomprensivo pubblico in un suburbio disagiato e sconnesso; la grande menzogna che, a parità di stipendio, gli insegnanti non abbiano la possibilità di scegliere le scuole migliori, lasciando la girandola dei precari alle altre. In tutto questo, nella primavera di ormai due anni fa, accadde, nella tragedia di tutti, qualcosa di importante nella scuola.
Decine e decine di migliaia di insegnanti – il personale pubblico più attempato e meno digitalizzato – organizzò, con uno sforzo volontaristico immenso e autogestito, il più grande corso di aggiornamento mai fatto in Italia. La Dad non esisteva, in poche settimane la maggior parte delle scuole imparò a funzionare con le piattaforme di istituto, terre vergini, a fare lezione con Zoom e Meet, a sfruttare i canali YouTube dedicati. Dalla lezione tradizionale frontale si passò a lezioni interattive, per quanto artigianali.
Per quanto con le connessioni scadenti, per quanto con il disagio fisico e psichico dei figli delle famiglie meno attrezzate. La scuola reagì. Ci fu anche allora un feroce dibattito teoretico tra tradizionalisti e innovatori, tra chi denunciava che quell’embrione di scuola digitale scuola non era, chiedendo impossibili riaperture; e chi magnificò oltre misura la trasformazione, per quanto coatta. C’erano i sostenitori di una visione a centralità umanistica, e ovviamente la consapevolezza che “la vita della scuola implica i corpi, l’esistenza di una comunità in presenza” (sempre Recalcati, ma del 2020). Insomma i teorici del “disagio digitale”. E c’erano i fautori di un’innovazione purchessia, in cui venissero finalmente introdotte tecnologie multimediali in grado di superare la lezione frontale e le “classi pollaio”, con una gestione più libera del tempo, con nuovi contenuti. Dentro una istituzione, va detto, in cui ancora due anni fa l’uso della Lim era considerato avveniristico. Oggi sembra di essere tornati, ma con meno sincerità e ingenuità, a quel dibattito. Perché è evidente che per una certa fascia di insegnanti, e del personale Ata che durante il lockdown ha sofferto meno del corpo docente, e dei sindacati cui interessa gonfiare le file del personale e dei precari futuri stabilizzati, le scuole aperte sono innanzitutto posti di lavoro. Il loro. E l’obiettivo è tornare a “come prima”. Buttando, con l’acqua sporca del disagio dei ragazzi e del disagio digitale dei docenti che hanno dovuto aggiornarsi a mani nude, anche il bambino della Dad: con le sue possibilità, tutte future ma reali. Il rischio è quello di sprecare quel tanto di sperimentazione, di aggiornamento strumentale e metodologico, di diversa organizzazione che la svolta digitale obbligatoria ha invece portato.
Va tutto buttato, al grido un po’ populista “la Dad è l’esperienza più mortificante di tutte”? Prima di farlo andrebbero tenuti presenti due aspetti. Quando Draghi dice che la Dad penalizza la possibilità di apprendimento dei ceti più disagiati, dice che è su quelle che bisogna investire. Il problema non è solo di “tenerli in classe”, o torneremmo alla tradizionale, e giustamente oggi contestata, idea che la scuola sia per prima cosa un parcheggio per le famiglie meno abbienti, e senza nonni o babysitter. Il problema è invece anche quello di dargli computer, connessioni, la possibilità di usarle non soltanto come fonte di svago. Si tratta di non rinunciare, proprio adesso, a fornire a quelle ampie zone di giovani che sono stati i più falcidiati dalla Dad gli strumenti di una alfabetizzazione digitale necessaria. A Milano la Fondazione Cariplo a partire dallo scorso anno ha finanziato e realizzato, collaborando con le scuole, le istituzioni, le reti sociali, un programma per contrastare quella che ha giustamente definito “povertà digitale”: che non è solo assenza di computer o di connessione, ma anche incapacità di utilizzare in modo adeguato quegli strumenti.
Il punto di partenza è stato proprio misurare quanto questa povertà incida negativamente sul futuro. Investire in muri, in aeratori, in personale è necessario. Ma distribuire reti, digitalizzare, insistere con alcune buone pratiche didattiche non è sottrarre presenza: è rendere agibile la presenza in una scuola più adeguata al futuro. La seconda attenzione riguarda invece il “cosa si va a fare”, a scuola, ed è drammaticamente la domanda più obliterata di tutte. Mitigare o rimuovere il disagio psicologico è di certo importante. Ma la scuola vive anche “un’altra emergenza vitale che la ferisce da decenni”, come ha scritto lo scorso lunedì Alessandro D’Avenia sul Corriere. Commentava un messaggio ricevuto da un ragazzino di 13 anni, angosciato dall’idea di “non avere talento”, intendendo il talento come lo si intende di solito: capacità di primeggiare, orizzonte di successo, figaggine variamente intesa. Il “talento” invece, nel suo significato profondo, che è ancorato alla nota parabola, è il patrimonio di possibilità con cui ognuno entra nella vita, e dunque anche a scuola. Coltivare questo talento, e la sua varietà, è essenziale, senza questo la scuola è morta. Che sia in presenza o in didattica a distanza non fa poi molta differenza. Nessuno strumento va buttato, per questo obiettivo.