L'ottusità del potere
Due anni senza scuola e ora nessuno vuole più tornarci. Il dramma dell'Uganda
La Dad più lunga del mondo, senza internet. Sono circa 15 milioni i giovani in età scolare che hanno dovuto rinunciare all'istruzione, in un paese già afflitto da anni di emergenza educativa, economica e sanitaria. Al di là del Covid
“Bisogna ripartire da una scuola ad personam, una scuola che cerchi uno a uno i propri studenti e riallacci un rapporto con loro”. Quella scuola e quegli studenti si trovano lungo una stradina di terra rossa che s’inerpica a fatica per una collina assolata. Siamo in Uganda, a Kireka, dove si estende lo slum più popoloso della capitale Kampala. Anche qui, come in tutta l’Uganda, le scuole primarie e secondarie hanno chiuso a marzo 2020 per quasi due anni. Ventidue mesi con i portoni sbarrati, le aule deserte e i banchi vuoti.
Chi ci aiuta a far chiarezza in questa situazione, un’emergenza umanitaria tra le più gravi dei nostri giorni e tra le meno raccontante, è Matteo Severgnini, bergamasco, ormai da dieci anni a Kampala come direttore della Luigi Giussani High School, un istituto che si ispira al metodo educativo del fondatore di Comunione e liberazione e che accoglie una popolazione di circa 500 studenti provenienti dalle baraccopoli di Kireka. Sono trascorsi pochi giorni dalla ripartenza e con Severgnini vogliamo fare il punto della situazione. Ritornare a quel 27 marzo 2020 è fondamentale per capire l’enormità del problema.
“Le scuole sono state chiuse con una circolare giunta due giorni prima. Solo quarantott’ore per bloccare e ripensare tutto il sistema d’istruzione. Con zero casi Covid accertati e i commissari che giravano per verificare che ogni scuola avesse effettivamente rispettato le indicazioni”. Inizia così il dramma di milioni di ragazzi che da un giorno all’altro si ritrovano alla mercé del nulla, obbligati a cercare lavoro, crescere e sostenere economicamente i fratelli più piccoli. Il direttore ci offre un po’ di dati: “L’Uganda conta 46 milioni di abitanti e il 50 per cento della popolazione è sotto i quindici anni. Questo significa che circa 15 milioni di giovani in età scolare hanno passato gli ultimi due anni lontano dalla scuola – a casa, in una baracca o per strada. I ragazzi hanno cercato qualsiasi tipo di occupazione. Molti hanno iniziato a lavorare nelle miniere o a fare i venditori ambulanti. Per le ragazze il dato è ancora più drammatico: si pensa che da marzo 2020 a dicembre 2021 ci sia stato un incremento del 25 per cento delle gravidanze per le giovani tra i dieci e i vent’anni, poi costrette a diventare spose-bambine”.
Questa chiusura avviene in un paese da sempre in emergenza educativa, economica e sanitaria. Chiudere le scuole, in un paese come l’Uganda dove di fatto non esiste la Dad, significa soffocare il vero punto per lo sviluppo della società. Tutto questo di fronte all’ottusità di un potere che ha pensato di fronteggiare l’oceano con un retino da pesca. “Il governo e il ministero dell’Educazione – continua Severgnini – hanno cercato di strutturare programmi radiofonici per le lezioni, ma anche questo tipo di azione è stata seguita dalla minoranza dei ragazzi ugandesi: probabilmente il 10 per cento della popolazione ha una radio e chi la possiede ha la corrente elettrica a giorni alterni. Poi la radio non offre la possibilità di vivere un percorso educativo. Inoltre, soltanto il 7 per cento della popolazione ha un accesso continuativo a internet. I ragazzi non hanno libri di testo, quindi possono studiare solo grazie agli appunti presi a lezione, perciò solo se le scuole sono aperte”.
Molti studenti della Luigi Giussani High School vivono in baracche fatiscenti dove risiedono anche otto persone in pochi metri quadrati. Si vive per strada ed è dalla strada che i professori sono ripartiti. “Abbiamo cercato di mantenere lo stipendio ai nostri docenti – continua Severgnini – così da non costringerli a dover cercare un altro lavoro. Con il Covid tantissimi insegnanti in tutta l’Uganda non hanno più percepito lo stipendio e hanno deciso di cambiare lavoro: ora che le scuole riaprono non ci sono docenti”. Si è ripartiti dalle strade, il vero luogo dove si vive nelle zone povere. “Nei mesi scorsi abbiamo pensato a una scuola ‘volante’: il martedì e giovedì un gruppo di docenti girava per le baraccopoli cercando i ragazzi e facendo un paio di ore di studio all’aria aperta”. Un modo per non perdere i contatti con questi giovani sempre più inghiottiti da responsabilità più grandi della loro età. Questo è un altro grande problema.
Oltre ad aver perso due anni di istruzione, aver dovuto iniziare a lavorare, i ragazzi hanno vissuto drammi spropositati: “La fame, l’abbandono e le responsabilità asfissianti: i ragazzi sono diventati grandi troppo presto e hanno sviluppato un’indipendenza negativa dall’adulto”. In che senso? “Non credono più negli adulti: i genitori li hanno abbandonati scaricando le responsabilità della famiglia sulle loro spalle; chi governa ha chiuso gli unici luoghi che potevano accoglierli e loro ora non vogliono più ritornare a scuola. Prima del Covid la dispersione scolastica era del 43 per cento, ora i numeri saranno tragici”.
Viene da chiedersi se questa chiusura abbia avuto un senso. “Nessun senso: oggi dopo ventidue mesi il numero di positivi è aumentato e le scuole sono aperte con le normali regole anticontagio. Si poteva e si doveva agire prima”. Questi primi giorni di scuola sono ricchi di emozioni ma anche carichi di problemi e punti interrogativi. Negli ultimi due anni tutti gli studenti sono stati promossi alla classe successiva senza aver frequentato un minuto di lezione; molti di questi dovranno affrontare un esame nazionale per il quale sono impreparati e impauriti. Un futuro nebuloso tutto da attraversare: “Le conseguenze di tutto questo – conclude il direttore – le vedremo tra dieci anni. Ora bisogna rimboccarsi le maniche e andare incontro a ognuno di questi ragazzi”.
L’intervista è pubblicata sulla newsletter mensile del Foglio dedicata al mondo della scuola, “La classe non è acqua”. Potete iscrivervi qui