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Lo sconcertante Cspi sugli esami di stato. Caro Bianchi, resista

Giacinto della Cananea

Il dissenso tra il ministero e l’organismo consultivo non è un’anomalia, ma la decisione finale spetta al ministro che in questo caso ha tre buone ragioni per discostarsi dal parere del Consiglio superiore della Pubblica istruzione

Le ripercussioni sociali della crisi sanitaria possono essere estremamente gravi, soprattutto nel campo scolastico. Occorre dosare con prudenza il ritorno alla normalità: nell’insegnamento, nella valutazione quotidiana degli studenti, negli esami finali. Su questo criterio generale, vi è un ampio consenso. Ma su come esso debba essere realizzato vi sono due visioni contrapposte. Da un lato, nelle ordinanze volte a disciplinare gli esami di stato conclusivi del primo e del secondo ciclo di istruzione per l’anno scolastico in corso, il ministro Bianchi ha preso posizione a favore del ripristino delle prove scritte, relativamente all’italiano o un’altra lingua e alla matematica. Dall’altro lato, nel formulare il parere sull’ordinanza, il Consiglio superiore della Pubblica istruzione ha espresso dissenso rispetto alla scelta effettuata dal Ministro, per quanto concerne l’esame di terza media. Ha motivato il dissenso facendo riferimento all’esperienza della didattica a distanza, “alle ripercussioni sugli apprendimenti e sui risvolti psicologici e sociali”. Ha proposto di sostituire le prove scritte con una prova che consenta di far “emergere le esperienze vissute e le competenze acquisite”. 

 

Va detto subito che il dissenso tra il ministro, cioè l’organo politico, e l’organismo consultivo non è, in sé, un’anomalia. Non lo è soprattutto in un periodo straordinario come quello attuale, che si stacca dagli altri per la dimensione dei problemi e la vastità delle ripercussioni. Detto ciò, il parere, pur se obbligatorio, non è vincolante, nel senso che la decisione finale spetta unicamente al ministro, il quale può discostarsi dal parere. 

E vi sono tre buone ragioni per cui farebbe bene a discostarsene. La prima è che il Consiglio superiore dà un’interpretazione discutibile della facoltà – prevista dalla legge di bilancio per il 2022 – di adottare “specifiche misure per la valutazione degli apprendimenti e per lo svolgimento degli esami di stato conclusivi”. Ritiene, cioè, opportuno derogare alle regole vigenti, che richiedono lo svolgimento delle prove scritte. Ma non spiega perché non si possano tener ferme le prove scritte, aggiungendovi altre forme di valutazione, così da compensare le ripercussioni negative temute. La seconda ragione attiene allo specifico ruolo svolto dall’istruzione pubblica nel nostro paese. Come è stato ben illustrato da Tullio De Mauro, il massimo di apertura e inclusività dell’istruzione pubblica (“la scuola è aperta a tutti”, in base all’articolo 34 della Costituzione) va conciliato con il contrasto non solo al vecchio analfabetismo, cioè all’incapacità di leggere e scrivere, ma anche all’incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura e scrittura nelle varie attività quotidiane. Rinunciare a verificare, quanto meno negli esami di stato, queste abilità comporta un alto rischio di renderle meno rilevanti agli occhi degli studenti e della società tutta. La terza ragione è che, come per altri aspetti della nostra vita sociale, dobbiamo tener conto del contesto europeo e internazionale. Se alcuni indicatori dimostrano che gli studenti italiani non sono affatto inferiori rispetto ai loro coetanei in molte capacità, altri indicatori attestano una minore consuetudine alle prove scritte. I limiti di tali confronti tra situazioni nazionali anche molto diverse non devono nascondere che un problema esiste ed è confermato dalle difficoltà emerse negli ultimi anni nei concorsi pubblici, dove non pochi candidati incorrono in gravi errori. In conclusione, va valorizzata l’idea d’introdurre misure integrative delle prove scritte, non quella di farne a meno.

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