diario di scuola
Marte disertore. Quadri in classe per mostrare un barlume di speranza
Per chi non può andare al museo del Prado, c'è sempre la lavagna elettronica, anche a Torre Maura. Per ammirare Diego Velázquez e Sandro Botticelli, e le loro divinità guerriere stanche e rassegnate, o dormienti e innamorate
Sembrava che fossimo quasi fuori dal morbone che ci ha assediato per due anni, e invece i contagi hanno ripreso a salire, e anche a scuola ci sono di nuovo studenti positivi. E in più c’è questa guerra assurda, lontana e vicina, che sgocciola le sue terribili immagini nelle nostre menti, e ci preoccupa e ci fa pensare che il mondo non cambierà mai, che la violenza è sempre qui, tra noi. Per questo oggi nella classe quinta ho mostrato alcune opere d’arte “antimilitariste”, perché gli artisti hanno questa capacità fenomenale di riassumere in un’immagine tanti pensieri. Ci sono le battaglie di Paolo Uccello e “Guernica” di Picasso, ma ho voluto far vedere alcuni quadri meno celebri, in cui anche il dio Marte mostra tutta la sua stanchezza.
Un capolavoro assoluto è proprio il ritratto di Marte dipinto da Diego Velázquez nel 1640, un’opera che chi può va ad ammirare al museo del Prado e chi non può, come noi qui a Torre Maura, può vedere sulla lavagna elettronica. Marte è rappresentato come un guerriero ormai avanti negli anni, un cinquantenne che ha deposto le armi, ammucchiate ai suoi piedi, e seminudo, solo con l’elmo in testa e uno straccio azzurro tra le gambe, rivela l’inutile fatica della guerra. Anche lui sembra non poterne più, i muscoli sono già un po’ flaccidi, l’espressione del corpo è quella di un uomo sconfitto, amareggiato, quasi rassegnato.
E poi ho mostrato il meraviglioso quadro del Botticelli, lungo e stretto, in cui Marte dorme dopo l’amplesso con Venere: il suo corpo è finalmente disteso nella pace dei sensi, l’amore ha vinto ogni desiderio di distruzione e morte, Venere si dimostra più forte delle armi. E attorno agli amanti, alcuni bambini-amorini giocano con la lancia del dio della guerra, e uno indossa per scherzo il suo elmo, tutto è grazia, quiete, leggerezza. Fate l’amore, non fate la guerra, ci diceva già Botticelli tanti secoli fa. Anche il Guercino, pittore emiliano del Seicento che molto ha lavorato a Roma, ci regala una variazione su questo tema. “Marte furibondo ritenuto da un amorino” mostra la marcia stolida e imperiosa del dio vestito per andare a combattere, e un piccolo Cupido prova a trattenerlo, gli si aggrappa addosso, fa quello che può per impedire che il mondo si copra di morti ammazzati orrendamente. L’impressione è che il suo sforzo sia vano, Marte quasi neanche si accorge di quel fastidio, procede come un carro armato verso la battaglia.
E poi siamo passati a un quadro più recente, “La grande guerra” di Magritte, un’immagine che molti hanno visto ma che pochi associano alla follia della guerra. E’ una donna in abito bianco, con borsetta, ombrello e cappello piumato, e davanti al viso, a nascondere i lineamenti, un mazzo di fiori. Come la mela davanti al volto dell’uomo con la bombetta. Questi personaggi non hanno più un nome, una storia privata, un percorso: sono pura impersonalità, anonimato pericoloso, sono chiamati a uccidere e morire, semplici funzioni della catastrofe. Non hanno armatura o fucile, ma la loro identità cancellata racconta che la guerra dimentica ogni vicenda umana, annulla la vita, riduce le persone a macchine belliche. I ragazzi conoscono Banksy, il più celebre pittore di street art, e allora ho pescato uno dei suoi murales che hanno la forza popolare dei proverbi: due soldati in divisa, armati di mitragliatrice, pronti a distruggere ogni cosa, e però uno dei due sta segnando con la vernice sul muro il simbolo della pace. Un ossimoro visivo, gli opposti che si tengono insieme, forse un soprassalto di coscienza nei militari che vogliono più la pace che la guerra.
Ultimo quadro: i fucilati del Goya. I soldati dell’armata napoleonica hanno invaso la Spagna senza sapere perché, e ora devono reprimere ogni forma di resistenza, schiacciare la popolazione che non si piega davanti a questa prepotenza. Il plotone d’esecuzione è vicinissimo alle vittime, i fucili stanno per sparare i colpi fatali: la violenza brutale degli invasori contro la debolezza degli invasi, pronti anche a morire per difendere la loro terra. E’ stata una bella lezione, gli studenti hanno seguito con attenzione, colpiti da queste immagini così potenti. “La forza alla fine vince sempre, professò”, mi ha detto Stefano sconsolato. No, non sempre, a volte Marte diserta, ama, coltiva altre speranze. Persino il dio della guerra a volte capisce l’insensatezza delle armi, la dolcezza della vita. A volte la guerra si ferma, gli artisti ci sperano e allora speriamo anche noi.